Nel
2011, anno in cui ricorre il 150° anniversario dell’unità d’Italia, il nostro
Paese sembra essere stato invaso da una nuova ondata di partecipazione
politica. Tra qualche anno, nei libri di storia, leggeremo che nel 2011 gli italiani
hanno deciso di schierarsi in maniera netta e decisa contro la privatizzazione
di una risorsa naturale così importante come l’acqua e, a distanza di oltre
vent’anni dalla prima volta, contro il nucleare. Purtroppo quello che non
leggeremo è che la fame è stata sconfitta. Sembra incredibile ma nell’era del
biologico e della cucina fusion
la fame è ancora la prima causa di morte al mondo.
Questo
perché la fame è il prodotto di egoismi, di sfruttamenti, della mancanza di
volontà politica; un prodotto presente ogni giorno sulle tavole di un miliardo di
persone al mondo. La Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per
l’agricoltura e l’alimentazione, dice che
sono
diversi gli ingredienti di questo prodotto: cambiamenti climatici, speculazioni
finanziarie, svalutazione del dollaro, incremento nel consumo di carne, aumento
del
prezzo
del petrolio. A tutti questi ingredienti la Fao ne aggiunge anche un altro,
forse meno famoso dei precedenti: i biocarburanti.
Sgombriamo
subito il campo da qualsiasi dubbio: parlare di biocarburanti significa parlare
di fame. Non credete quindi a chi vi dice che i biocarburanti sono la soluzione
all’inquinamento, a chi assicura che rappresentano la panacea al
surriscaldamento del pianeta e nemmeno a chi sostiene che sono la nostra unica
soluzione energetica. Credete piuttosto alle storie vere di persone che la sera
sentono lo stomaco brontolare per colpa della nostra insaziabile sete di
energia. Mai come oggi la parola ecologia è entrata nel nostro vocabolario
quotidiano anche se ancora troppe poche persone sono disposte a rinunciare alla
propria automobile, nemmeno per andare a comprare il pane dietro casa…
Di
certo c’è che, con il petrolio che sta finendo e la Terra che sta diventando
più bollente di un forno a microonde, è necessario fare qualcosa. Se ne sono
accorti perfino i grandi della Terra. Non per ragioni filantropiche né tanto
meno ecologiste, intendiamoci. Piuttosto perché sull’energia, da sempre, si
gioca la delicata partita degli equilibri geopolitici sullo scacchiere
internazionale.
Prendete
ad esempio il Brasile e scoprirete che non è un caso che negli ultimi anni sia
diventato una superpotenza mondiale. La ragione, provando a semplificare la situazione,
ha un nome e un cognome: canna da zucchero. Nello stato sudamericano da anni
usano il bioetanolo per far camminare le automobili, tanto che, per la prima volta
nella storia, nel Paese sudamericano la vendita di bioetanolo ha superato
quella della benzina. Utilizzando
un’iperbole
potremmo dire che la canna da zucchero, così come lo fu la veste bianca in khadi
di Ghandi, è diventata per il Brasile il simbolo
dell’indipendenza dalla
fame,
dalla malnutrizione, dalla miseria. In una parola, dalla povertà.
Così
se una volta coltivavamo canna da zucchero, mais, grano, soia per riempire le
nostre pance, e per fare due chilometri andavamo tranquillamente a piedi,
adesso coltiviamo canna da zucchero, mais, grano, soia, per riempire i serbatoi
dei nostri nuovi fiammeggianti Suv
con cui facciamo i due chilometri che ci separano dal panettiere o magari
proprio dalla palestra dove andiamo a bruciare i grassi di troppo. Se non
altro, ci consoliamo, inquiniamo poco… Sbagliato! Sbagliato perché abbattere
una foresta, riconvertire quel terreno in una coltivazione intensiva,
utilizzare i trattori per dissodare la terra e i diserbanti per proteggere le
piante e infine trasportarle a casa nostra con l’aereo non è certamente il modo
migliore per ridurre le emissioni inquinanti. Lo certificano diversi studi
autorevoli: considerando l’intero processo produttivo, i biocarburanti
producono quasi la stessa CO2 delle energie fossili.
I
più fieri sostenitori dei biocarburanti potrebbero obiettare che perfino
respirando produciamo CO2. D’accordo. Però dobbiamo avere anche il coraggio di chiamare
le cose con il loro nome. I biocarburanti sono la nuova frontiera del
colonialismo. Cambiano i fattori ma il risultato è sempre lo stesso: una volta
andavamo in Africa per schiavizzare le persone, poi con le cannucce per
succhiare via il petrolio dalla terra o con il piccone per scrostare i diamanti
dalle miniere; oggi andiamo in Africa con la pala e il rastrello alla ricerca
di ettari di terra che noi non abbiamo.
La
direttiva europea sulle energie rinnovabili, infatti, stabilisce obiettivi che
difficilmente potremo raggiungere contando solo sulle nostre forze. Le stime
dicono che l’Europa, per produrre il 20 per cento del proprio fabbisogno
energetico da fonti rinnovabili entro il 2020, avrebbe bisogno di una
superficie grande come due volte il Belgio da destinare alla produzione di
biocarburanti.
Non
stupiamoci quindi se le aziende europee e americane, con la copertura economica
dei governi del Nord e quella politica dei governi del Sud, si stanno
accaparrando intere regioni in Africa, Asia e America Latina. Spostano forzatamente
le popolazioni dalle terre sulle quali vivono e lavorano da generazioni. Insomma,
i biocarburanti sono un problema maledettamente serio. Non c’è da scherzarci
su, nonostante il premio Nobel per la Chimica Paul Crutzen sostenga che i
biocarburanti – convertendo più del previsto l’azoto dei fertilizzanti in
ossido d’azoto, il gas esilarante – ci faranno morire dal ridere. I biocarburanti
ci faranno morire, è vero. Ma non dal ridere. Perché, secondo la Banca
Mondiale,
il 75 per cento dell’aumento dei prezzi alla base della recente crisi
alimentare è stato causato proprio dalla folle rincorsa ai biocarburanti.
Perché, nonostante le continue promesse dei governi di tutto il mondo, la fame
causa più morti di terremoti, epidemie, guerre. Perché, nonostante una persona
su sette al mondo soffra la fame, le multinazionali espropriano terre e
distruggono habitat che non gli appartengono. Perché dal 2007 a oggi
la
malnutrizione cronica è aumentata di due persone al secondo. Perché per
produrre cinquanta litri di bioetanolo servono duecentotrentadue chili di mais,
cioè quanto servirebbe per sfamare un bambino per un intero anno.
È
per tutte queste ragioni che ActionAid ha
deciso che non era più possibile tacere sui biocarburanti. Con la campagna Operazione
Fame abbiamo dichiarato guerra alla più grande catastrofe dei
giorni nostri, la prima causa di morte dal Guatemala alla Cina, perché crediamo
che la fame possa e debba essere sconfitta. Basta solo un po’ di buona volontà.
Da parte dei governi, in primo luogo.
Ma
anche da parte nostra, perché le scelte che compiamo ogni giorno hanno un
impatto più grande di quanto pensiamo. Per esempio, quando prendiamo la
macchina per fare quei due chilometri, non pensiamo che riducendo i nostri
consumi di energia ridurremmo i consumi totali di energia del nostro Paese,
permettendo al governo di fare minor ricorso ai biocarburanti per raggiungere
gli obiettivi europei. Adesso tocca a ciascuno di noi fare il
primo
passo, o meglio, la prima pedalata, rispolverando magari quella bici che da
tempo giace in cantina per andare a comprare il pane dietro casa.
Per informazioni, Infinito
edizioni: 06/93162414
Maria Cecilia Castagna:
320/3524918