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giovedì 22 marzo 2012

I diritti delle donne, in ogni parte del mondo, uno degli obiettivi de “Il diritto di cambiare” di ActionAid



Nel perseguire la giustizia sociale, ActionAid sostiene con decisione i diritti delle donne, non solo perché la disparità tra donna e uomo è un’inaccettabile ingiustizia, ma anche perché promuovere e sostenere il ruolo delle donne è uno dei modi più efficaci per sconfiggere povertà ed esclusione sociale. Infatti, i Paesi dove, secondo l’indice di sviluppo umano elaborato dalle Nazioni Unite, le condizioni di vita sono migliori per tutti i cittadini, sono anche quelli in cui la disparità tra donna e uomo è meno accentuata.
Questo è evidente nel settore dell’agricoltura, nel settore sanitario e in quello assistenziale, dove sono le donne a farsi carico delle persone bisognose di cura e sostegno, senza però che ciò venga loro riconosciuto e ricompensato. In altre parole, se il ruolo delle donne fosse ufficializzato e sostenuto, l’economia e lo sviluppo, soprattutto nei Paesi più poveri, ne trarrebbero un impulso formidabile. La Fao lo conferma, affermando che se le donne avessero
pari accesso degli uomini a terra, tecnologia, servizi finanziari, istruzione e mercato, il numero degli affamati nel mondo si ridurrebbe di 100-150 milioni.
Ma non è solo nei cosiddetti Paesi del Sud del mondo che i diritti delle donne non sono pienamente riconosciuti. La loro violazione è la più universale forma di ingiustizia, riscontrabile in ogni angolo del pianeta e nei più diversi ambiti, come documentano, tra gli altri, i rapporti dell’Undp, l’agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo umano. Le lavoratrici, a parità di lavoro compiuto, sono solitamente retribuite meno dei lavoratori. Le donne hanno minori opportunità di carriera, minori possibilità di assumere incarichi rilevanti anche nel mondo politico: un Paese guidato da una presidente o da un premier donna ancora fa notizia, e solo nel 2008, nel piccolo Paese africano che è il Rwanda, le donne hanno raggiunto il primato in Parlamento.
Ancora più drammatica, forse, è la situazione della violenza fisica. Le donne la subiscono su vasta scala nei Paesi in via di sviluppo come in quelli industrializzati, Italia inclusa. Risolvere questo problema è urgente, perché è impensabile che le donne possano ricoprire il ruolo che
spetta loro nelle rispettive società se non sarà loro garantito il diritto alla sicurezza e se continueranno a essere vittime di violenze e soprusi.

Il testo è disponibile sul sito della Infinito edizioni (www.infinitoedizioni.it) e può essere ripreso liberamente citando la fonte (©Infinito edizioni 2012).

Per informazioni, Infinito edizioni: 06/93162414
Maria Cecilia Castagna: 320/3524918   

mercoledì 21 marzo 2012

L’arte di costruire e mantenere la pace, di Luisa Morgantini per “La chiamavano guerra” di Davide Berruti

La chiamavano guerra    
È guerra, sono guerre: devastanti, distruttrici di relazioni, di corpi, della natura e dell’ambiente, di patrimoni culturali dell’umanità. E la chiamavano pace.
Davide, nel suo passare attraverso o dentro le situazioni di guerra, riflette sulla necessità di tenere insieme, nella cooperazione internazionale o nell’agire dei singoli e dei movimenti e delle associazioni pacifiste – sebbene io preferisca chiamarli “movimenti per la nonviolenza” – le risposte sia all’emergenza e ai bisogni delle comunità sradicate e ferite, sia quelle della ricerca per la costruzione della pace. Anche lui consapevole che non vi è pace senza giustizia e che la povertà, come ci dice Nelson Mandela, “non è un destino” ma il risultato delle politiche di un sistema che invece di porsi la questione per chi, come, cosa produrre, pensa a fare più profitto e a sfruttare uomini, donne e natura.
Anche se la sua narrazione è racconto di un’esperienza soggettiva, dalla presa di coscienza alla pratica della nonviolenza, e non una dissertazione accademica, Davide nomina le contraddizioni degli interventi chiamati “umanitari” e che invece sono in realtà dominio geopolitico, conquiste di risorse e mercati o di terra colonizzata e rubata – ai Palestinesi, nel caso di Israele.
L’autore evidenzia come sia indispensabile separare gli interventi di costruzione della pace (peacebuilding) dalla commistione con i militari e al contempo racconta i palesi fallimenti e le ipocrisie degli aiuti umanitari, che invece di agire sui conflitti per creare condizioni di sviluppo e di economia sociale diventano portatori di nuovi conflitti e disuguaglianze.
Attraverso i suoi passaggi nelle varie organizzazioni, dall’Agesci agli Obiettori di coscienza, dall’Associazione per la Pace, alla formazione e l’insegnamento, ai viaggi nei luoghi delle guerre o dell’occupazione militare, nel conflitto e nel post conflitto (ma quanto lavoro andrebbe fatto per spiegare cosa sono i conflitti) ci lascia luoghi, persone, riflessioni e ingiustizie subite ma anche esempi di umanità straordinaria.

martedì 20 marzo 2012

I social network e le rivoluzioni nel Nord Africa della primavera del 2011 nell’introduzione scritta da Massimo Cirri al libro di Giuseppe Acconcia “La Primavera egiziana e le Rivoluzioni in Medio Oriente”.

Ci hanno raccontato che adesso il mondo è più piccolo. Che tutto è vicino, che le distanze contano meno, quasi niente, che qualsiasi cosa succeda e ovunque succeda un attimo dopo mi raggiungerà qui, sul mio computer portatile o su un telefonino. Io saprò, in tempo reale, e capirò. Un po’ è vero. Un po’ è un’illusione. Credo un’illusione da predominio della tecnica. Forse si sono confusi i termini. Perché quel telefonino, oltre a raccontare i cambiamenti veloci del mondo, pare essere al tempo stesso co-produttore di quel mutamento. Lo racconta e nel raccontarlo lo accelera. La comunicazione della rivolta infiamma e alimenta il fuoco della rivolta. Con una velocità mai sperimentata prima. È successo nelle primavere del Mediterraneo: Tunisia, Egitto, Libia. Succede in Siria. Succederà ancora. E gli apparati tecnologici che veicolano l’informazione giocano una parte importante: sul finire degli Anni ‘70 del secolo scorso la rivoluzione khomeinista si sparge in Iran attraverso le audiocassette. Quelle su cui noi, qui, ascoltavamo De Gregori e Battisti. Dal suo esilio nella banlieue parigina, credo senza aver mai ascoltato musica da un’audiocassetta né da un disco né da qualsiasi altra fonte, l’ayatollah Khomeini intuisce che quei nastri possono servire ad altro. E ci registra i suoi discorsi che incitano alla rivolta in nome dell’Islam sciita. Le cassette entrano clandestinamente nell’Iran dello Scià – chi la ferma un’audiocassetta alla frontiera? – milioni di iraniani l’ascoltano, la duplicano e la passano al vicino di casa che l’ascolta, la duplica e la passa a qualcun altro. Quando Khomeini arriva a Teheran su un bianco aereo Air France trova ad aspettarlo una folla immensa, forse dieci milioni di persone, il più grande concentramento di corpi nella storia dell’umanità. Frutto di quella propagazione delle sue predicazioni, lenta ma virale, tramite audiocassetta.
Le rivoluzioni del 2011 in Nord Africa e in Medio Oriente si sono propagate con i social network. Alla velocità dell’immediato o quasi. Così le primavere arabe e mediorientali sono diventate, per come ci sono state rappresentate, un tutt’uno con Facebook e Twitter. Internet ha messo in connessione le rivolte all’interno dei Paesi e contemporaneamente le ha comunicate all’estero. Sempre in tempo reale, quindi velocemente. Su questa velocità si è giocato un rischio, per noi che da lontano avevamo voglia e bisogno di capire. Credo sia il solito stretto legame tra velocità dell’informazione e sua superficialità. Che significa perdita di informazione.
Ce ne siamo resi conto il 2 febbraio 2011. La Rivoluzione di piazza Tahrir è in corso dal 25 gennaio. La piazza è piena di migliaia di persone, le immagini sono su Facebook, i blogger bloggano, Al-Jazeera riprende e rilancia sui circuiti televisivi di tutto il mondo. Il 28 gennaio iniziano i “Venerdì della collera”, manifestazioni ancora più imponenti. Il 2 febbraio c’è la “battaglia dei cammelli”. I sostenitori di Hosni Mubarak attaccano i manifestanti sul dorso di cavalli e cammelli, fruste e bastoni alla mano. A riguardarle, le immagini, sembra che in quella assurda carica al galoppo in piazza ci siano più cavalli che cammelli. Forse un malcelato desiderio di esotismo porta i media occidentali a sottolineare maggiormente la presenza dei cammelli. E comunque diventava difficile capire cosa c’entrassero le truppe cammellate con Twitter. Che battaglia era?
Qualche mese più tardi ci ha aiutato a chiarire il contesto Hossam el-Hamalaway, un blogger, militante di sinistra, arrestato e torturato nelle carceri di Mubarak già nel 2000. Da blogger el-Hamalaway può permettersi di dire che la rete non ha avuto nella rivolta egiziana tutta l’importanza che le è stata attribuita. Perché, racconta intervistato dall’Unità quando è venuto in Italia a ricevere il premio di Internazionale, “Mubarak ha bloccato le comunicazioni ma il movimento non si è fermato. I milioni di lavoratori in sciopero non hanno Twitter. La maggior parte dei blogger politicizzati ha un piede nel mondo virtuale e uno nel mondo reale. L’organizzazione non si fa in rete, ma in piazza”. Quindi meno social network e più qualcos’altro. Qualcosa di più complicato.
Il 2 febbraio, solo qualche ora dopo quell’assurda galoppata di quadrupedi contro la folla, Giuseppe Acconcia ha aiutato qualche centinaia di migliaia di ascoltatori della radio a capirci qualcosa. Qualche settimana prima ci aveva scritto un’e-mail, a Caterpillar, programma di Radio2. “Sono laureato alla Bocconi con tesi sull’Iran, dove ho vissuto. Sono di ritorno in Italia dopo due anni al Cairo, dove ho insegnato italiano alla scuola italiana e all’Istituto di cultura. Ho scritto vari articoli e racconti. Trovi allegato curriculum per notizie in dettaglio. Cari saluti, Giuseppe”.
Io temo di avergli risposto con frasi di circostanza. Grazie, teniamoci in contatto. Per fortuna non conservo le e-mail inviate, adesso me ne vergognerei più dettagliatamente. Cosa può esserci di interessante da raccontare in Egitto, per un programma radiofonico del pomeriggio? Questo devo aver pensato. Ed era il 24 dicembre 2010. Un mese prima che esplodesse tutto. Ma Giuseppe è un tipo paziente. Appena tornato in Egitto si è rifatto vivo. E dai primissimi giorni della rivolta, quasi ogni pomeriggio, ci raccontava la piazza e quello che c’era dentro. Da conoscitore attento della società egiziana. Scrivendo sul blog del programma articoli di approfondimento quando i minuti contati della radio – la velocità che minaccia la qualità – non bastavano.
Mail di quel giorno, 2 febbraio, ore 14.43: “La situazione è di nuovo cambiata improvvisamente con i manifestanti pro Mubarak in piazza e scontri con i manifestanti. Se non dovessi riuscire a prendere la linea con quel numero puoi provare a quello che hai usato nei giorni scorsi, possiamo anche provare a sentirci via Skype. Cari saluti, Giuseppe”. La linea in qualche modo siamo riusciti a prenderla, qualche volta ci ha salvato Skype, e Giuseppe ci ha spiegato che quelli sui cammelli erano criminali fatti uscire dalle prigioni. Pagati dal regime. E da quali quartieri venivano e com’era la vita quotidiana in quei giorni complicati, e chi sono i Fratelli musulmani e perché tutta la Primavera araba è cominciata in Iran con le rivolte studentesche del 2009, l’Onda verde. Adesso il racconto e l’analisi continuano qui, in forma di libro. Quindi con più spazio, connessioni, dettagli. E quella profondità che manca alla comunicazione ostaggio della velocità. Con l’assalto in quella stessa notte al Museo egizio – è l’inizio della depredazione del patrimonio archeologico – e il racconto della caccia agli stranieri.
“Caro Massimo, la situazione è precipitata all’improvviso ieri notte. Molti italiani e stranieri sono scappati in aeroporto, noi siamo stati sequestrati da una banda armata e poi condotti dall’esercito che a sua volta ci ha portati al ministero dell’Intelligence. Ci hanno rilasciati dopo tre ore, ora siamo all’hotel Conrad aspettando o di ripartire per la Germania con gli australiani o notizie dall’ambasciata. Non so come proseguirà la giornata. Cari saluti, Giuseppe”.
È finita con il ritorno forzato in Italia. Ma in Italia Giuseppe è riuscito a rimanerci quindici giorni, se non ho sbagliato i conti. Continuando a sentire gli amici al Cairo. Poi è tornato in Egitto. Credo per dovere verso se stesso, per finire il lavoro e raccontare che al Cairo, una città con sedici milioni di persone, tra macchine ferme un po’ dovunque, cani randagi, cimiteri abitati, Twitter e cellulari, ci sono le donnole. A me delle donnole non aveva mai detto nulla nessuno. Grazie Giuseppe.

Il testo è disponibile sul sito della Infinito edizioni (www.infinitoedizioni.it) e può essere ripreso liberamente citando la fonte (©Infinito edizioni 2012).

Per informazioni, Infinito edizioni: 06/93162414
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giovedì 15 marzo 2012

Una favola per la festa del papà


“Allegoria delle rane”, una favola per festeggiare i papà e la seconda edizione di “Ci sarà una volta. Favole e mamme in ambulatorio” di Andrea Satta

C’era una volta un gruppo di rane che volevano fare una gara. Il loro obiettivo era quello di raggiungere la cima di una torre molto alta. Già molte persone si erano riunite per assistere alla gara.
La gara stava per iniziare e le persone non credevano che le rane sarebbero state in grado di raggiungere la cima della torre.
Si sentivano esclamazioni come: “Oh, che stancante!”; “Non saranno mai in grado di raggiungere la cima della torre”; “La torre è troppo alta!”; “È troppo faticoso!...”.
Così le rane cominciarono, una alla volta, ad abbandonare la gara... Il pubblico continuava a gridare: “Non ci sarà nessuna rana in grado di arrivare in cima!”; “Abbandonate!”.
Solo una rana era coerente. Non voleva in alcun modo abbandonare la gara!
Alla fine, con grande ambizione e forza, una sola rana riuscì a raggiungere la cima della torre!
Le altre rane e il pubblico, allora, vollero sapere come fosse riuscita a farcela.
Così uno degli spettatori andò dalla rana per chiedere come avesse fatto a raggiungere la cima della torre. Ma…la rana era sorda!!!
Morale?
Non ascoltare mai le persone che hanno la cattiva abitudine di essere sempre negative e pessimiste... E soprattutto: è bene essere sordi, quando qualcuno ti dice semplicemente che non puoi realizzare i tuoi sogni. Pensate: si può avere successo nella vita se lo si vuole veramente!

Per informazioni, Infinito edizioni: 06/93162414
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mercoledì 14 marzo 2012

Infinito edizioni nell’ambito del mese dedicato alla cultura della Bosnia Erzegovina vi invita alla presentazione del libro+dvd


(pag. 128, € 16,00)

di Massimo D’orzi
Prefazione di Silvio Soldini
Introduzione di Fabrizio Grosoli
Postfazione di Riccardo Noury
Con testi di Predrag Matvejević, Paola Traverso e Silvia Angrisani

sabato 17 marzo, ore 10,30
presso il Museo della Civiltà Romana
piazza Giovanni Agnelli 10 – Roma

Interverranno con Massimo D’orzi, Riccardo Noury (Amnesty International), Luca Leone (scrittore e giornalista), Vittoria Fiumi (regista), e Agim Saiti, poeta

“Adisa o la storia dei mille anni”, ambientato in una Bosnia Erzegovina ancora lacerata dalle ferite della guerra, racconta un viaggio attraverso uomini, donne, bambini appartenenti al popolo Rom. Un popolo per noi ancora oggi misterioso e sconosciuto, oggetto di discriminazioni e violazioni dei più basilari diritti umani.

“I Rom hanno vissuto la loro Shoah. Spesso si dimentica che furono uccisi a decine di migliaia nei campi di sterminio nazisti, insieme agli Ebrei. Il loro modo di vivere non è vietato dalla legge, ma sono sottoposti a stretti controlli. Questo capita in vari tempi, in diversi Paesi. Non si sa con esattezza quanti siano i Rom residenti in ciascuno Stato. Sappiamo però che in alcuni sono numerosi, soprattutto nei Balcani orientali. Ma un numero ancora più consistente di essi è ‘sempre in cammino’. Chissà da dove vengono o dove vanno; ignoriamo se  partono o tornano”. (Predrag Matvejević)

“La ‘condizione’ sociale di questa comunità, nelle sue durezze e tragedie, nel suo isolamento frutto di discriminazioni, ma anche nei sogni perduti di un passato mitico e favoloso, viene fuori da parole piene di dignità, ma ancora di più dagli elementi ‘antropologici’ e dalle suggestioni visive che la camera riesce sottilmente a catturare: il fuoco, le ombre, il contrasto tra luce e oscurità, gli arcaici strumenti musicali, le pieghe dei volti e ancora, su tutti, l’incredibile e insondabile sguardo di Adisa”. (Fabrizio Grosoli)

Con il patrocinio di: Amnesty International, Associazione 21 luglio
e Associazione per i popoli minacciati.

Il Gigante Cinema  ringrazia l’associazione U.N.I.R.S.I. per il supporto dato alla realizzazione del film

L’autore
Massimo D’orzi, regista, ha al suo attivo, tra gli altri, i cortometraggi “La mano rossa” (1997) e “La rosa più bella del nostro giardino” (2003), il film intervista a Marco Bellocchio “L’immagine della ribellione” (2002), i documentari “Improvvisando” (2008), “Ombre di luce” (2010) e “Ribelli!” (2011), oltre ad “Adisa o la storia dei mille anni”, già distribuito in Francia e nei Paesi francofoni, e al lungometraggio di finzione “Sàmara” (2009, in collaborazione con il C.S.C.). Ha firmato una decina di regie teatrali. Ha pubblicato il libro + Dvd “Ribelli!” (Infinito edizioni, 2011). “Adisa” è il secondo libro+Dvd della sua Trilogia della Resistenza.

Per informazioni, Infinito edizioni: 06/93162414
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www.museociviltaromana.it   

martedì 13 marzo 2012

“Tu non diventerai mai un campione!”, i sogni di un ragazzo che amava lo sport e la tragedia di Brema in “L’ultima bracciata” di Francesco Zarzana

“Tu non diventerai mai un campione!”. Mi bacchettava così il mio professore di educazione fisica tra il serio e il faceto, in quel severissimo liceo classico palermitano dove la vista della cattedrale arabo-normanna dalle finestre della classe, irradiata da perenni raggi di sole, non aveva prezzo per bellezza e suggestione. Del resto – pensavo tra me e me – lui è anche l’allenatore della squadra di nuoto per me acerrima avversaria e in realtà vuole solo irretirmi. E io non volevo cadere nel tranello. Ma alla lunga aveva ragione lui. Sapevo fare tante, troppe, discipline benino. Ai campionati studenteschi, escludendo sollevamento pesi, pugilato e poco altro (ma solo perché non erano discipline “studentesche”!), ero iscritto alle più improbabili gare e con buoni esiti. Ma non eccellevo in nessuna. Il nuoto, però, era il primo unico grande amore. Mi ero avvicinato a questa disciplina per curare una brutta scoliosi e con tanti sacrifici economici da parte dei miei genitori. Poi era arrivato l’agonismo. Partecipare alla Coppa Mosca di nuoto significava anche sognare di andare alle Olimpiadi sovietiche. Chissà! Con il boicottaggio di tantissime nazioni per protestare contro l’invasione russa in Afghanistan, magari si liberava qualche posto in più. Ma ovviamente erano sogni di ragazzo che amava lo sport. Durante le fasi di riscaldamento di quei noiosissimi, quotidiani, 1.500 metri a stile libero sciolti bisognava far passare il tempo. E allora canticchiavo, pensavo ai compiti da fare a casa o alla preparazione alle successive competizioni. Bisognava allenarsi bene e dare il massimo. E c’era una gara che aveva un nome curioso. 
La Coppa Caduti di Brema. Partecipare alle fasi regionali era interessante perché curioso era il suo nome. Ma qual era il suo significato? Coppa Mosca era facile da capire. Si poteva andare alle Olimpiadi. L’avevo compreso quando cominciavo a fare i primi passi nell’agonismo: esisteva la Coppa Montreal… e c’erano le Olimpiadi canadesi qualche tempo dopo. Ma nessuno mi aveva spiegato cosa fosse questa Coppa Caduti di Brema e, per la verità, io non l’avevo mai chiesto. Una gara come le altre che serviva per provare a realizzare buoni tempi. Tutto lì.

giovedì 8 marzo 2012

Le frontiere e la sovranità dei singoli Stati nella prefazione di Pietro Veronese al libro “La chiamavano guerra” di Davide Berruti



Tra coloro che seguono o fanno la politica internazionale, la generazione degli europei occidentali che è nata prima o durante la Seconda guerra mondiale ha perseguito prioritariamente un obiettivo: mai più guerre. Come ricorda spesso nei suoi articoli Barbara Spinelli, questa è stata, prima ancora della produzione di ricchezza, la finalità prima della costruzione dell’Europa comunitaria. In questo senso, l’operato di quella generazione è stato coronato da successo. I governi europei occidentali oggi dissentono spesso tra di loro, anche aspramente, ma un’aggressione armata è esclusa dall’orizzonte del possibile. Eppure, ancora agli inizi del nostro nuovo secolo, ricordo a Pristina, in Kosovo, l’amministratore civile Onu del territorio, il francese Bernard Kouchner, esaltare la sua collaborazione con il comandante delle forze Nato in Kosovo, che all’epoca era un tedesco, come un fatto impensabile per la generazione dei loro padri.

Ricordo questo aneddoto perché la frase di Kouchner mi dette subitaneamente la misura di come le cose fossero cambiate per la generazione successiva, quella nata dopo la Seconda guerra mondiale, cioè la mia. Cresciuti negli anni della Guerra fredda e della minaccia dell’olocausto nucleare, per noi la cooperazione franco-tedesca è stato un fatto scontato, banale. A noi i due conflitti mondiali apparivano e tuttora appaiono come il ricordo di un’epoca che non si presenterà mai più, alla stregua dei secoli passati della storia europea, delle guerre dei trent’anni e dei cent’anni. Storia, appunto.

mercoledì 7 marzo 2012

Il Cairo un anno dopo, la postfazione di Vincenzo Nigro per il libro “La Primavera egiziana” di Giuseppe Acconcia

La Primavera egiziana” 

A un anno dall’inizio delle Primavere arabe, il grande sommovimento che sta rivolgendo il passato e preparando il futuro di quel mondo è solo nelle fasi iniziali. Anche dove il movimento ha avuto “successo”, dove un cambiamento evidente c’è già stato (Tunisia, Egitto, Libia,
in misura minore Yemen), il cammino da percorrere è ancora lunghissimo. Né democrazia né stabilità sono alle viste, e i pericoli possono ancora essere grandissimi rispetto alla gioia di aver visto cadere dittature violente, opprimenti e cleptocratiche.
In altri Paesi, che sino a oggi sembrano aver congelato le spinte al cambiamento o addirittura sembrano immuni a un’evoluzione accelerata dai movimenti di popolo (vedi Arabia Saudita o Algeria), nessuno è ancora in grado di poter dire cosa accadrà nei prossimi mesi.
Gli analisti, gli studiosi nelle scorse settimane hanno analizzato se stessi, per capire come fosse possibile che nessuno fra loro – con concretezza – avesse previsto un simile rivolgimento in Paesi piccoli o grandi come Tunisia, Egitto e Libia. Gli elementi per una possibile analisi – per esempio gli indicatori di base dello sviluppo e delle condizioni politiche e sociologiche nel mondo arabo – c’erano tutti. Se qualcuno avesse davvero studiato in sequenza i poderosi rapporti dell’Undp (Arab human developement report) avrebbe visto tutti in fila i componenti per la creazione di quella miscela esplosiva che ha fatto esplodere in maniera differente i regimi di Muhammar Gheddafi, di Hosni Mubarak o di Ben Ali. Detto questo, era difficile fare una previsione, perché ancora oggi nessuno riesce a comprendere come questi fattori si siano trasformati e combinati fra di loro.
Qualcuno ha scritto che c’è una ricetta perché le rivoluzioni riescano: 1) il governo, l’autocrate devono apparire irrimediabilmente inetti e tirannici, tanto da essere percepiti come una minaccia per il futuro del Paese; 2) le classi dirigenti, anche gli apparati di sicurezza e di difesa, devono realizzare questo pericolo, e non avere più intenzione di difendere il vecchio regime; 3) la grande maggioranza della popolazione, che in maniera trasversale, secondo le etnie, i gruppi religiosi, quelli politici o professionali, si deve mobilitare; 4) le potenze internazionali, gli alleati dell’autocrate di turno, devono rifiutarsi di continuare a sostenerlo, non devono (politicamente o militarmente) permettergli di usare la forza in maniera massiccia.
A questi potremmo aggiungere un fattore di evoluzione storica, politica del Paese o dei Paesi in cui le rivoluzioni hanno successo. Per il mondo arabo questo è il vero fattore unificante: quei popoli erano fermi alla condizione di sudditi, in un mondo che ovunque consolida democrazie
con gradi di cittadinanza più o meno compiuti. Gli arabi rimanevano sudditi, mentre internet portava in casa i volti dei cittadini. I leader autocrati arabi, i re, generali o dittatori che fossero o che sono, non sono cambiati da anni. Sono rimasti autocrati. Forse, come dicono a Tripoli, “oggi da un Gheddafi siamo passati a cento piccoli Gheddafi che provano a diventare grandi”. Ma questa sarà l’inevitabile, dolorosa transizione che quei Paesi hanno avviato, la cui destinazione è ancora lontana. Nei prossimi mesi dovremo seguire il fenomeno più interessante della fase che seguirà l’inizio delle Rivoluzioni. Quando l’unico potere possibilmente organizzato, quello dell’Islam, proverà a cimentarsi con la sfida del governo e poi della gestione delle società arabe. Siamo all’inizio di un percorso affascinante, delicato, pericoloso. Non possiamo trasferirci su un altro Paese per rimanere lontano dalle fiamme e dalle scintille che il calderone arabo continuerà a sprigionare.

Il testo della postfazione di Vincenzo Nigro è disponibile sul sito della Infinito edizioni (www.infinitoedizioni.it) e può essere ripreso liberamente citando la fonte (©Infinito edizioni 2012).

Per informazioni, Infinito edizioni: 06/93162414
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martedì 6 marzo 2012

“Niente uccide come la fame”, il primo obiettivo del libro “Il diritto di cambiare” di ActionAid dedicato alla Giustizia Sociale


Pubblichiamo un breve estratto del libro di ActionAid dedicato alla Giustizia Sociale dal titolo “Il diritto di cambiare


Tre cose s’imparano in fretta, appena venuti al mondo: respirare, piangere e mangiare. E se è vero che la relazione con il cibo la si instaura in modo pressoché automatico, altrettanto immediato dovrebbe essere il riconoscere che la giustizia non può prescindere dal garantire a ogni essere vivente il diritto ad alimentarsi. Invece a soffrire la fame, secondo dati delle Nazioni Unite del 2010, sono 925 milioni di persone. Di questi, 578 si trovano in Asia, 276 in Africa, 53 in America Latina e circa una ventina nei Paesi del cosiddetto Nord del mondo. Niente uccide più della mancanza di cibo, non le guerre, non le malattie, non le catastrofi come terremoti o alluvioni. La fame non è conseguenza di calamità naturali o di produzione insufficiente di cibo; è la conseguenza della mancanza di scelte o di scelte sbagliate, è il prodotto di politiche inaccettabili.
La fame sarebbe un problema relativamente facile da risolvere: secondo la Fao, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’alimentazione e lo sviluppo agricolo, 40 miliardi di dollari l’anno sarebbero sufficienti per garantire a ogni essere umano un’alimentazione adeguata. (...)
Certo, la mancanza di fondi destinati allo sviluppo agricolo non è l’unica causa. Vi è il fatto che gli alimenti sono oggetto di speculazione finanziaria; il cambiamento climatico che danneggia le piantagioni; un sistema di commercio che fa sì, ad esempio, che chi coltiva caffè, il prodotto che si vende di più al mondo dopo il petrolio, sia di solito estremamente povero. La fame, infine, è dovuta al fatto che tante donne e tanti uomini non possiedono risorse sufficienti. Queste risorse possono essere economiche, perché le persone non guadagnano a sufficienza per comprarsi da mangiare, ma il più delle volte la risorsa cruciale che viene a mancare è la terra o, meglio, la possibilità di godere dei frutti della terra. Uno dei paradossi della fame, infatti, è che la maggioranza di chi la soffre vive circondato da terreni da cui però non può trarre quanto necessario per la sussistenza, perché gli è proibito accedervi.

Per ulteriori informazioni Infinito edizioni: 06/93162414
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