Ci hanno
raccontato che adesso il mondo è più piccolo. Che tutto è vicino, che le
distanze contano meno, quasi niente, che qualsiasi cosa succeda e ovunque succeda
un attimo dopo mi raggiungerà qui, sul mio computer portatile o su un
telefonino. Io saprò, in tempo reale, e capirò. Un po’ è vero. Un po’ è
un’illusione. Credo un’illusione da predominio della tecnica. Forse si sono confusi
i termini. Perché quel telefonino, oltre a raccontare i cambiamenti veloci del
mondo, pare essere al tempo stesso co-produttore di quel mutamento. Lo racconta
e nel raccontarlo lo accelera. La comunicazione della rivolta infiamma e
alimenta il fuoco della rivolta. Con una velocità mai sperimentata prima. È
successo nelle primavere del Mediterraneo: Tunisia, Egitto, Libia. Succede in
Siria. Succederà ancora. E gli apparati tecnologici che veicolano l’informazione
giocano una parte importante: sul finire degli Anni ‘70 del secolo scorso la
rivoluzione khomeinista si sparge in Iran attraverso le audiocassette. Quelle
su cui noi, qui, ascoltavamo De Gregori e Battisti. Dal suo esilio nella banlieue parigina, credo senza aver mai
ascoltato musica da un’audiocassetta né da un disco né da qualsiasi altra
fonte, l’ayatollah Khomeini intuisce
che quei nastri possono servire ad altro. E ci registra i suoi discorsi che incitano
alla rivolta in nome dell’Islam sciita. Le cassette entrano clandestinamente
nell’Iran dello Scià – chi la ferma un’audiocassetta alla frontiera? – milioni
di iraniani l’ascoltano, la duplicano e la passano al vicino di casa che
l’ascolta, la duplica e la passa a qualcun altro. Quando Khomeini arriva a
Teheran su un bianco aereo Air France
trova ad aspettarlo una folla immensa, forse dieci milioni di persone, il più
grande concentramento di corpi nella storia dell’umanità. Frutto di quella
propagazione delle sue predicazioni, lenta ma virale, tramite audiocassetta.
Le
rivoluzioni del 2011 in Nord Africa e in Medio Oriente si sono propagate con i social network. Alla velocità dell’immediato
o quasi. Così le primavere arabe e mediorientali
sono diventate, per come ci sono state rappresentate, un tutt’uno con Facebook e Twitter. Internet ha messo in connessione le rivolte all’interno
dei Paesi e contemporaneamente le ha comunicate all’estero. Sempre in tempo
reale, quindi velocemente. Su questa velocità si è giocato un rischio, per noi
che da lontano avevamo voglia e bisogno di capire. Credo sia il solito stretto
legame tra velocità dell’informazione e sua superficialità. Che significa
perdita di informazione.
Ce ne
siamo resi conto il 2 febbraio 2011. La Rivoluzione di piazza Tahrir è in corso
dal 25 gennaio. La piazza è piena di migliaia di persone, le immagini sono su Facebook, i blogger bloggano, Al-Jazeera
riprende e rilancia sui circuiti televisivi di tutto il mondo. Il 28 gennaio
iniziano i “Venerdì della collera”, manifestazioni ancora più imponenti. Il 2
febbraio c’è la “battaglia dei cammelli”. I sostenitori di Hosni Mubarak
attaccano i manifestanti sul dorso di cavalli e cammelli, fruste e bastoni alla
mano. A riguardarle, le immagini, sembra che in quella assurda carica al galoppo
in piazza ci siano più cavalli che cammelli. Forse un malcelato desiderio di
esotismo porta i media occidentali a sottolineare maggiormente la presenza dei
cammelli. E comunque diventava difficile capire cosa c’entrassero le truppe
cammellate con Twitter. Che battaglia
era?
Qualche
mese più tardi ci ha aiutato a chiarire il contesto Hossam el-Hamalaway, un blogger, militante di sinistra, arrestato
e torturato nelle carceri di Mubarak già nel 2000. Da blogger el-Hamalaway può permettersi di dire che la rete non ha
avuto nella rivolta egiziana tutta l’importanza che le è stata attribuita.
Perché, racconta intervistato dall’Unità
quando è venuto in Italia a ricevere il premio di Internazionale, “Mubarak ha bloccato le comunicazioni ma il
movimento non si è fermato. I milioni di lavoratori in sciopero non hanno
Twitter. La maggior parte dei blogger politicizzati ha un piede nel mondo
virtuale e uno nel mondo reale. L’organizzazione non si fa in rete, ma in piazza”.
Quindi meno social network e più
qualcos’altro. Qualcosa di più complicato.
Il 2
febbraio, solo qualche ora dopo quell’assurda galoppata di quadrupedi contro la
folla, Giuseppe Acconcia ha aiutato qualche centinaia di migliaia di
ascoltatori della radio a capirci qualcosa. Qualche settimana prima ci aveva scritto
un’e-mail, a Caterpillar, programma
di Radio2. “Sono laureato alla Bocconi con tesi sull’Iran, dove ho vissuto. Sono
di ritorno in Italia dopo due anni al Cairo, dove ho insegnato italiano alla
scuola italiana e all’Istituto di cultura. Ho scritto vari articoli e racconti.
Trovi allegato curriculum per notizie in dettaglio. Cari
saluti, Giuseppe”.
Io temo
di avergli risposto con frasi di circostanza. Grazie, teniamoci in contatto.
Per fortuna non conservo le e-mail inviate, adesso me ne vergognerei più
dettagliatamente. Cosa può esserci di interessante da raccontare in Egitto, per
un programma radiofonico del pomeriggio? Questo devo aver pensato. Ed era il 24
dicembre 2010. Un mese prima che esplodesse tutto. Ma Giuseppe è un tipo
paziente. Appena tornato in Egitto si è rifatto vivo. E dai primissimi giorni
della rivolta, quasi ogni pomeriggio, ci raccontava la piazza e quello che
c’era dentro. Da conoscitore attento della società egiziana. Scrivendo sul blog del programma articoli di
approfondimento quando i minuti contati della radio – la velocità che minaccia
la qualità – non bastavano.
Mail di quel giorno, 2 febbraio, ore
14.43: “La situazione è di nuovo cambiata
improvvisamente con i manifestanti pro Mubarak in piazza e scontri con i
manifestanti. Se non dovessi riuscire a prendere la linea con quel numero puoi
provare a quello che hai usato nei giorni scorsi, possiamo anche provare a
sentirci via Skype. Cari saluti, Giuseppe”. La linea in qualche modo siamo
riusciti a prenderla, qualche volta ci ha salvato Skype, e Giuseppe ci ha spiegato che quelli sui cammelli erano
criminali fatti uscire dalle prigioni. Pagati dal regime. E da quali quartieri
venivano e com’era la vita quotidiana in quei giorni complicati, e chi sono i
Fratelli musulmani e perché tutta la Primavera araba è cominciata in Iran con
le rivolte studentesche del 2009, l’Onda verde. Adesso il racconto e l’analisi
continuano qui, in forma di libro. Quindi con più spazio, connessioni,
dettagli. E quella profondità che manca alla comunicazione ostaggio della
velocità. Con l’assalto in quella stessa notte al Museo egizio – è l’inizio
della depredazione del patrimonio archeologico – e il racconto della caccia
agli stranieri.
“Caro Massimo, la situazione è precipitata
all’improvviso ieri notte. Molti italiani e stranieri sono scappati in
aeroporto, noi siamo stati sequestrati da una banda armata e poi condotti
dall’esercito che a sua volta ci ha portati al ministero dell’Intelligence. Ci
hanno rilasciati dopo tre ore, ora siamo all’hotel Conrad aspettando o di
ripartire per la Germania con gli australiani o notizie dall’ambasciata. Non so
come proseguirà la giornata. Cari saluti, Giuseppe”.
È finita
con il ritorno forzato in Italia. Ma in Italia Giuseppe è riuscito a rimanerci
quindici giorni, se non ho sbagliato i conti. Continuando a sentire gli amici
al Cairo. Poi è tornato in Egitto. Credo per dovere verso se stesso, per finire
il lavoro e raccontare che al Cairo, una città con sedici milioni di persone,
tra macchine ferme un po’ dovunque, cani randagi, cimiteri abitati, Twitter e cellulari, ci sono le donnole.
A me delle donnole non aveva mai detto nulla nessuno. Grazie Giuseppe.
Il testo
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Maria Cecilia Castagna: 320/3524918