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martedì 15 luglio 2014

...SE LA FINALE FOSSE STATA COREA DEL NORD-PORTOGALLO


Un milione e mezzo di visualizzazioni in pochi giorni per un video, caricato su youtube, e attribuito alla tv di regime nordcoreana (fai click qui per visualizzarlo). La Corea del Nord viene indicata come finalista ai mondiali in Brasile assieme al Portogallo, dopo aver sconfitto il Giappone per 7-0, Stati Uniti per 4-0 e Cina per 2-0.
Se ne è parlato in migliaia di blog, e tutte le testate giornalistiche, almeno in rete, ne hanno dato spazio. Chi dice che è un falso, chi dice che è vero. I più lo ritengono, se non altro, plausibile.

Vi spiego perché questo video è un falso, realizzato in tutta probabilità in Corea del Sud.

1. Il video dura sessanta secondi. Appare come l’estratto di un TG flash in perfetto stile occidentale. Non ci sono TG flash in Corea del Nord. Non ci sono notizie, più che altro. Solo propaganda. La propaganda è martellante, lenta, prolissa.
60 secondi, e non di più, è invece il tempo perfetto per un video che su youtube vuole fare milioni di visualizzazioni.

2. Se il regime avesse voluto fare un falso sulla Corea del Nord ai mondiali l’avrebbe fatto come si deve.
La falsificazione storica nella storia del regime nordcoreano è una vera e propria arte e non si fa proprio in questo modo sbrigativo. Si fa sulla carta stampata, innanzitutto, che è più facile ed efficace. Migliaia di libri confezionati, nei decenni, per riscrivere la storia del passato. Se volessero fare un video falso, lo farebbero nel loro stile. Spenderebbero una cifra spropositata (i soldi ce li hanno) e lo farebbero in pompa magna, con tanto di partite intere giocate secondo un copione.  

3. A sostegno del fatto che si tratti di un falso, c’è anche la considerazione del calcio in Nord Corea. La giornalista del video in questione parla dei mondiali come se si trattasse di una notizia fra le tante. Come se in un tg italiano, per esempio, si parlasse della nazionale italiana di Baseball. Invece il calcio in Corea del Nord è lo sport nazionale. A Pyongyang ci sono gli stadi più belli del mondo. Le vittorie calcistiche a livello internazionale sono una vera ossessione per il regime. Basti pensare che ancora oggi viene spesso mandata in onda, per intero, una partita dei mondiali del 1966 dove la squadra nordcoreana sconfisse proprio la nostra Italia per 1-0, entrando per la prima e unica volta agli ottavi di finale.

4. Lo studio televisivo non assomiglia a quelli della tv di regime. La cronista è vestita con un abito troppo occidentale. A far pensare che il video sia stato fatto in Corea del Sud è inoltre, a giudizio degli esperti, l’accento della giornalista. La lingua è la stessa per Corea del Nord e Corea del Sud, ma gli accenti ci sono. Esattamente come nella nostra Italia. 

5. Poco credibile, perfino per un nordcoreano, è la scelta delle squadre e i punteggi con cui vengono battute. Il Giappone, nemico storico del regime, viene sconfitto 7-0. Gli Stati Uniti che sono l’attuale nemico, in quanto grande alleato della sorella del Sud, vengono sconfitti 4-0. Solo 2-0 viene invece sconfitta la Cina, che non è nemica ma è comunque un paese, che pur avendo mollato il vessillo di regime, mantiene una voce autoritaria nelle questioni di politica nordcoreana. Una bella lezione anche a loro, ma moderata.
Il Portogallo aspetta invece la squadra nordcoreana in finale. Sarebbe una bella rivincita per l’umiliazione che questo paese ha fatto vivere alla Corea del Nord in Sud Africa, dove si era realmente qualificata per i gironi iniziali. La squadra del regime venne battuta dal Portogallo per 7-0.
La scelta delle squadre e i risultati delle partite sono esattamente le scelte che avrei fatto anch’io, pensando ai sassolini nelle scarpe del regime, e pensando di fare una parodia. Che è quello che questo video è.

6. Fonti internazionali, dal quartiere internazionale di Pyongyang (persone che vivono a Pyongyang in quanto rappresentanti di organizzazioni internazionali come Save The Childrean, Unicef, Fao…) dichiarano di aver visto il video solo su youtube, come tutto il resto del mondo, e di non averne proprio sentita notizia in Corea del Nord.

7. Se la Corea del Nord non si è qualificata ai mondiali in Brasile, la cosa più plausibile che avrebbe potuto fare Kim Jong-un, e che probabilmente ha fatto, è di non fare parola dei mondiali. Fare finta che i mondiali non ci siano. Il più grande falso storico che si possa compiere è non dire quello che succede. Il silenzio è la più grande arma che il regime usa sul popolo.

Perché si è dato tanto seguito a un falso come questo?

Perché la Corea del Nord è un paese dove l’indagine è impossibile. Dove si può pubblicare quello che si vuole e di certo non arriveranno smentite ufficiali. Pensiamo al gennaio 2014 quando si sparse in rete la notizie dell’uccisione di Jang Song-Taek, zio di Kim Jong-un, fatto sbranare da centoventi cani. Il fatto non è mai successo. Venne inventato da un giornale satirico cinese. Eppure tutti l’hanno dato per vero.
Questo è uno dei limiti della rete. In un attimo la notizia falsa è in tutti i computer del mondo, e la semplice massiccia divulgazione del fatto, ne autentica la veridicità.
L’altro aspetto da considerare è che, avendoci abituato il regime a verità assurde, tutto ci sembra in qualche modo verosimile. Al campo da golf di Pyongyang la guida spiega ai turisti che Kim Jong-il giocò lì una sola volta e chiuse la partita con 18 hole in one. Se è vero questo, allora la Corea del Nord potrebbe pure arrivare in una finale mondiale col Portogallo. Ma l’ennesima assurdità sulla Corea del Nord, sia pur verosimile, non è detto che sia vera. Questo video, non lo è di sicuro. 
Daniele Zanon, autore del libro Mass games. Fuga dalla Corea del Nord (2014)



GERMANIA CAMPIONE DEL MONDO, VINCE IL LIBRO L'ULTIMA BRACCIATA



Si è concluso da poche ore il mondiale di calcio in Brasile che ha visto trionfare, per la quarta volta nella storia, la nazionale tedesca che ha sconfitto l'Argentina. Per i nostri lettori che hanno seguito i mondiali e il nostro gioco Brasile 2014 segnaliamo la super promozione del libro L'ULTIMA BRACCIATA, rappresentativa della Germania! 

lunedì 14 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Carla Del Ponte

Sulla piena responsabilità di Ratko Mladić nel genocidio di Srebrenica non ci sono attenuanti, ma il processo contro l’ex generale potrà fare luce sulla verità e chiarire eventuali corresponsabilità di quella che è e rimarrà per sempre una delle pagine più drammatiche dei fatti criminali nella moderna e democratica Europa. Giustizia per le vittime, i sopravvissuti e ancora, come a Norimberga, perché non si ripeta mai più, never again.

Carla Del Ponte,
Magistrato, diplomatico,

ex Procuratore Capo del Tribunale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia

domenica 13 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Paolo Rumiz

Sono passati tanti anni ormai, ma non uno dei problemi della guerra del 1992-1995 è stato risolto. Il potenziale incendiario dell’area è rimasto intatto. Ma il peggio è che non abbiamo risposto a nessuna delle domande scomode sulle nostre responsabilità in quel conflitto nel cortile di casa nostra. Srebrenica è il monumento a questa rimozione interessata. Perché la Nato non è intervenuta? Perché le Nazioni Unite sono scomparse dalla zona di operazioni? A cosa è servito riedificare in pompa magna Srebrenica e ricostruire il ponte di Mostar se i Balcani sono scomparsi dalle agende della politica? Che speranza possiamo promettere a questa gente se non riusciamo a punire i colpevoli? Che democrazia, che sviluppo può rinascere in assenza di giustizia?

Paolo Rumiz,
Giornalista e scrittore

sabato 12 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Paolo Bergamaschi

Sento ancora i giorni di Srebrenica sulla mia pelle. Per me è impossibile dimenticare quei tragici momenti. Pochi giorni prima ci aveva lasciato Alexander Langer che in parlamento aveva inutilmente cercato di smuovere l'Unione europea dall'inerzia esasperante nei confronti del dramma bosniaco. Quando cadde Srebrenica, però, nessuno si rese immediatamente conto del destino dei suoi abitanti. Le immagini di Mladić  con la resa del contingente olandese della Nazioni Unite che sulla carta avrebbe dovuto proteggere l'enclave avevano causato sconcerto, rabbia e vergogna ma non facevano presagire quello che è poi diventato il più grande crimine contro l'umanità sul suolo europeo dopo la seconda guerra mondiale. Solo qualche mese dopo cominciarono ad emergere le prime testimonianze sull'eliminazione premeditata della popolazione maschile della città. Ricordo come fosse oggi, durante una cena di lavoro a Sarajevo, l'ambasciatore svizzero che riportava il racconto di un testimone sulle squadre della morte serbo-bosniache che aspettavano con le armi spianate nei boschi sulle alture circostanti i gruppi di profughi sulla strada per Tuzla per compiere il massacro pianificato da tempo con la connivenza imbelle di tutta la comunità internazionale.  Sono poi tornato a Srebrenica in occasione del decennale di quello che il diritto internazionale ha qualificato come genocidio. Eravamo decine di migliaia nel cimitero di Potočari  a commemorare gli scomparsi e a presenziare alla cerimonia funebre delle salme che continuavano ad essere recuperate ed identificate dalle fosse comuni. Troppo tardi. Che almeno quei morti possano prevenire altri crimini contro l'umanità.      

Paolo Bergamaschi,
consigliere presso la commissione Esteri del Parlamento europeo,

musicista, scrittore

venerdì 11 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Luca Leone

Il ricordo della mia prima volta a Srebrenica è legato a un viaggio in taxi da Tuzla, cominciato al mattino presto, in compagnia di un’interprete diventata poi amica, Emira (oggi splendida mamma), e di un tassista alquanto preoccupato, direi terrorizzato. Erano tempi in cui a Srebrenica non c’erano ancora quasi musulmani – avrebbero cominciato a rientrare negli anni successivi, per quanto questo rientro abbia riguardato soprattutto donne, coraggiose e vedove – la poca gente a una certa ora non girava più per le strade e in circolazione c’erano preoccupanti ceffi armati.
Da allora non so più quante volte sono tornato a Srebrenica. Almeno una volta l’anno, ogni anno. Spesso di più. In estate capita d’incontrare gruppi, gente allegra, curiosa, a volte interessata a tornare, magari l’anno dopo, per fare qualcosa. Per chi è rientrato, questo è importante. Sapere di non essere stati cancellati, rimossi, masticati e digeriti dalla grande e antropofaga macchina dei media: questo chiedono, desiderano, vogliono le donne di Srebrenica, queste donne meravigliosamente forti e tragicamente segnate dalla perdita violenta di tutto ciò che di più caro avevano al mondo. Figli, nipoti, mariti, fratelli, i genitori per le più giovani.
Negli occhi di queste donne ritrovo, ogni volta, un dolore viscoso, un lacerante urlo silenzioso di disperazione, che implode loro nell’anima, devastandole ogni giorno di più, ogni giorno che il destino permette loro di riaprire gli occhi, al mattino.
Non è un dolore di facciata. Non è autocommiserazione o vittimismo sventolato in faccia a chi va a incontrarle. È dolore genuino, vero, così profondo da poter quasi risultare incomprensibile a chi il vero dolore non l’ha mai sperimentato, a chi pensa che basti svoltare l’angolo per spegnere la realtà, come si fa con un computer o con la televisione. Un pulsante e il film dell’orrore scompare. Clik. No, a Srebrenica l’orrore è reale, palpabile, costantemente presente, invasivo. Come il senso d’impotenza. Quest’ultimo è figlio della mancata giustizia. Da diciannove anni le donne di Srebrenica chiedono giustizia, solo quella. Il mondo è sordo, il loro Paese è sordo. Le coscienze dei potenti sono inevitabilmente sorde. Ecco perché in quegli occhi il dolore è sempre più viscoso, pesante, opprimente, insanabile. E oggi, diciannove anni dopo, lo sarà ancora un po’ di più.
Io credo che queste donne moriranno senza aver mai conosciuto giustizia. Penso che fino all’ultimo giorno della loro esistenza dovranno muoversi in una città ormai ostile, in un’Entità – la Repubblica serba di Bosnia – ancora più ostile, in mezzo a coloro che, nel luglio del 1995, hanno partecipato attivamente oppure come delatori all’omicidio di massa di ogni loro singolo caro.
Provate a pensare a come vi sentireste, se vi capitasse un’esperienza del genere.
Provate a pensare ai tanti casi di cronaca nera italiani, rimasti senza un colpevole e/o un mandante.
Ora provate a moltiplicare questi casi per oltre 10.000 e forse comincerete ad avere una lontana idea di che cosa voglia dire l’espressione “giustizia negata” e di come quelle donne possano sentirsi.

Forse ora vi sentirete più vicini a loro. O forse continuerà a non fregarvene nulla, perché magari non c’è niente di più importante dell’incipiente finale dei mondiali di calcio. Ma sappiate che quanto accaduto a Srebrenica e in Bosnia potrebbe succedere in qualunque parte del mondo. Anche in Italia. Dove pure, durante la seconda guerra mondiale, abbiamo conosciuto tanti efferati eccidi, spesso rimasti senza un colpevole e senza giustizia. Tutto questo è normale? No, non credo. Come non credo sia normale non provare dolore e compassione davanti a eventi come il genocidio di Srebrenica. Gli autori di quel genocidio non ne hanno provato, di dolore, a Srebrenica. Non hanno provato compassione. E questo dovrebbe indurre tutti a una profonda riflessione. Perché i criminali non hanno una sola nazionalità. Ma tutti sono accomunati, ovunque vivano, dagli stessi obiettivi e dal medesimo disprezzo per la vita. La vita degli altri.
Luca Leone,
Giornalista, scrittore, direttore editoriale Infinito edizioni

giovedì 10 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Gian Matteo Apuzzo

Viaggiando per i Balcani ci si rende conto che Srebrenica è un luogo dove bisogna volerci arrivare, non è un punto di passaggio. È un punto di arrivo. Così come fisicamente, anche mentalmente a Srebrenica bisogna arrivarci, e una volta arrivati, è difficile tornare indietro. È come una sospensione della storia, della memoria, un luogo non-luogo di ciò che è stato e ciò che è ancora la recente storia dei Balcani. Ho sempre pensato che i luoghi come Srebrenica vanno abitati, fisicamente e mentalmente, perché da lì invece occorre ripartire, sapendo che le memorie non si cancellano. La pace ha bisogno del rispetto delle memorie ma anche ugualmente di parole di futuro, sapendo che la guerra nei vari luoghi dei Balcani ha confuso e confonde ancora vittime e carnefici. Anche noi europei siamo stati allo stesso tempo vittime e carnefici di Srebrenica: carnefici quelli che hanno permesso che succedesse, sia fisicamente presenti lì nei giorni della tragedia, sia a distanza nell’indifferenza politico-istituzionale; vittime quelli che vedevano e vedono i Balcani come una parte di Europa e Srebrenica come una ferita per l’Europa tutta. Siamo tutti coinvolti ora come allora, facciamo quindi che non sia sempre degli altri la responsabilità del passato e anche quella  della costruzione di futuro.

Gian Matteo Apuzzo,
Scrittore, sociologo, docente universitario 

mercoledì 9 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Eldina Pleho

Quando penso a Srebrenica, mi viene in mente un’estate di circa 25 anni fa. Penso al tempo che ho trascorso con mio nonno, l’odore dei funghi che raccoglievamo insieme. Mio nonno li vendeva e mi aveva comprato un ombrello rosso per andarci a scuola; mi aveva detto che l’estate dopo avremmo lavorato ancora di più e mi avrebbe comprato una borsa rossa. Ma quell’estate non c’è stata.

Eldina Pleho,
giornalista

martedì 8 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Irfanka Pašagić

I politici della Repubblica serba di Bosnia, i maestri, le famiglie, tutti negano le stragi, l’evidenza della guerra di conquista, gli stupri etnici, il genocidio di Srebrenica. Le nuove generazioni vengono cresciute nell’ignoranza di quel che è accaduto, nel mito della Grande Serbia e nell’odio per l’altro. Non è giusto né per i ragazzi né per la nostra società, che tanto ha sofferto e soffre.

Irfanka Pašagić,
Presidente di Tuzlanska Amica

lunedì 7 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Matteo Pagliani/Adottando Onlus

Srebrenica, per la storia, è un piccolo punto sulla mappa della ex-Jugoslavia. Un angolo di Balcani dove, tra l'11 ed il 16 luglio 1995, le milizie serbo-bosniache di Ratko Mladić  massacrarono tra le 8 e le 10mila persone, tutti i maschi musulmani catturati dopo la caduta di quella piccola enclave. In quella cittadina avevano vissuto, isolate dal mondo e in condizioni di totale privazione, assediate per tre anni, quasi 40.000 persone, in maggioranza profughi giunti da altri villaggi caduti nelle mani dei serbo-bosniaci.
Tutti i miei ricordi legati a Srebrenica, belli o brutti, assomigliano a foto in bianco e nero. La distesa di lapidi a perdita d'occhio, l'infinito elenco di nomi incisi nella pietra al memoriale di Potočari. Le centinaia di sacchi, pieni di resti umani, allineati e catalogati al centro di identificazione di Tuzla. Un pomeriggio di luglio del 2009 in cui, da un bar di Srebrenica, assisto alla grottesca parata dei nazionalisti serbi in città: fischi, sputi, insulti dalle porte e dalle finestre, la polizia (serba) che li difende, quasi li scorta e allora penso "questo Paese non cambierà mai, è tutta fatica sprecata". Ma pochi giorni dopo i bambini di Osatica si riprendono le vie del centro con un'allegra e carnevalesca sfilata in maschera, strappano sorrisi ai negozianti che escono sulle porte, va di nuovo tutto bene.
A Srebrenica incontro per la prima volta un fuoristrada di Tuzlanska Amika, poi conosco la sua fondatrice  Irfanka Pasagic e l'associazione Adottando, che da Bologna collabora con Tuzlanska Amica: io e Giorgia adottiamo a distanza Bojan, un bimbo serbo di Srebrenica, nato come i suoi tre fratelli nel campo profughi Baratova: la dimostrazione vivente che a Srebrenica, come nel resto della Bosnia-Erzegovina, hanno perso tutti.
L'ultima foto in bianco e nero ritrae un'altra giornata caldissima, forse d'agosto, in cui passo davanti al memoriale di Potočari  con Giorgia, la nostra bimba Guo e un ragazzo bosniaco. Sta guidando lui la macchina e all'improvviso abbassa completamente il volume della radio, un gesto che da allora faccio sempre anch'io, in segno di rispetto, quando transito davanti a quel luogo. Lui continua a guidare e guarda fisso avanti, sembra un po' smarrito. A pranzo, poi, ci spiega che sarebbe già qualcosa, per lui, se i suoi genitori fossero sepolti lì: almeno ci sarebbe una tomba su cui piangerli. E allora capisco la fatica enorme dei sopravvissuti: nati in un Paese che non esiste più, incapaci di comprendere eppure obbligati a provarci continuamente, col dubbio perenne che se, semplicemente, non fossero mai esistiti forse il resto del mondo si sentirebbe più leggero, sollevato da un'enorme e giustificatissimo senso di colpa.

Matteo Pagliani
(Associazione Adottando Onlus - Bologna) 

domenica 6 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Gianluca Paciucci

È un mastino senza denti ad assalire da dentro i nostri corpi gonfi di cattiva memoria e di pessimo oblio. Fa finta di far paura e di inchiodarci alle nostre responsabilità: poi prova a mordere, non riesce a farlo e scatta l’autoassoluzione.
Viviamo in nodi che stringono l’Europa senza soffocarla: nodi d’oggi, che si chiamano Aleppo e Odessa, nodi d’appena ieri, come Srebrenica. Guerre dette etniche, ma che sono solo scontri accaniti per la terra e per un dio, ovvero scontri tra comunità e soldati contro civili. Islamofobia militante nel sud-est della Bosnia, con la Serbia appena al di là del fiume, la morbida Drina che è anche un fiume di cadaveri, genocidio e inondazioni. La civiltà cristiana con il volto di Mladić voleva proteggerci dall’islam, come autorevolmente spiegò l’europarlamentare Borghezio alla notizia dell’arresto del militare serbo: “…i patrioti sono patrioti e per me Mladić è un patriota. Quelle che gli rivolgono sono accuse politiche. Sarebbe bene fare un processo equo, ma del Tribunale dell’Aja ho una fiducia di poco superiore allo zero. I Serbi avrebbero potuto fermare l’avanzata islamica in Europa, ma non li hanno lasciati fare. E sto parlando di tutti i Serbi, compreso Mladić. Io comunque andrò certamente a trovarlo, ovunque si troverà…”. Come provò a proteggerci? Uccidendo migliaia di maschi musulmani tra l’11 e il 16 luglio del 1995, dopo averli separati dal resto della loro gente, gente minacciata, terrorizzata, stuprata. Come ci protegge Borghezio?
Il mastino sdentato e canuto che è la nostra coscienza prova a ricordarcelo almeno una volta all’anno, quando si approssima la ricorrenza dell’11 luglio, ma salgono fuori solo balbuzie di guaiti: e così tocca persino coccolarlo, il povero mastino, e che va bene così, e farlo accucciare ai piedi del letto o forse sulla copertina fina d’estate. Questa è la coscienza dell’Europa unita, dei caschi blu, dei mediatori internazionali, e di noi votanti. Ora jihadisti sbarcano sulle coste italiane, portando da noi la guerra santa: almeno così sostiene il quotidiano ufficiale del partito che ha mandato Borghezio a Strasburgo. I jihadisti arrivano da Aleppo, ma a più forza ancora e da più tempo vengono da Srebrenica: sono gli uccisi di Srebrenica e di Potočari a sbarcare qui (quelli che non rimuoiono affogati), tutti vecchietti o giovanissimi manovali del terrore, vero?, non ricomposti, non riaggregati. Sbarcano corpi smembrati che s’aggirano per le nostre città, rifornendo di denti spezzati il mastino delle nostre coscienze affinché provi ad azzannarci sul serio scavandoci un morso nel cuore del petto. Solo chi questo morso lo aveva da prima, già da tempo viaggiava  per le strade di Bosnia senza esitare un attimo. La guerra in casa, scrisse Luca Rastello, nel più bel libro pubblicato da un europeo sui crimini degli anni Novanta nei Balcani occidentali. Loro in noi.
Eppure lontanissime sono Srebrenica, Aleppo, Bengasi, Kabul e Odessa. Partecipiamo a riti e a cerimonie, senza scalfire né la morte del passato né quella del presente. Essa (ma se fosse un maschio?) risorge dalle fosse comuni, ora rivoltate dalle piogge devastatrici di metà maggio che hanno portato ovunque mine antiuomo e ossa. Alle donne e uomini della Bosnia Erzegovina ora spetta l’ennesima ricostruzione: le case di molti ritornati a Srebrenica sono state spazzate via dalla furia delle acque. Forse ce la faranno ancora, nel nome di chi non c’è più e guardando con rabbia e pietà persino al muso del mastino.


Gianluca Paciucci
scrittore e poeta

sabato 5 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Giacomo Scattolini

Le immagini della caduta di Srebrenica, in quel luglio 1995, le ho ancora davanti. Nitide. Chiare. Come se fosse un fatto recente, di qualche settimana fa. I miliziani che la facevano da padrone, le colonne di profughi che arrivavano a Tuzla in fuga da Srebrenica. La quasi totale assenza di uomini lasciava presagire il peggio. Ricordo la donna che a pochi chilometri da Tuzla, dalla salvezza, decise di farla finita appendendosi ad un albero con una corda. Capii che la guerra era alla fine. Srebrenica era stata “svenduta” sull'altare della real-politik. Nella pace prossima ventura che si andava a firmare non c'era spazio per Srebrenica e Zepa. Peccato che Srebrenica fosse abitata da persone, esseri umani. Tutti facemmo finta di non vedere. Tutti. Il governo di Sarajevo non vide, lo stesso il governo di Belgrado e quello fantoccio di Pale, l'Onu non vide, le cancellerie della cosiddetta “Comunità Internazionale” e, forse, anche noi facemmo finta di non vedere che la “normalizzazione del territorio”, come la definì Bill Clinton, sarebbe passata per il più grande massacro in Europa dalla seconda guerra mondiale. Non vedemmo neanche un altro più grande massacro, quello del Rwanda, dove furono uccise quasi un milione di persone nell'indifferenza totale di tutti. Quindi come potevamo accorgerci di ottomila persone trucidate nel cuore dell'Europa a pochi passi da noi? Sono passati 19 anni da quei massacri. Oramai è lavoro per storici, non per me che mi sono occupato in quegli anni di portare aiuti umanitari o di informazione o di entrambe le cose, come spesso mi era capitato di fare. Non ho mai nominato in questo pezzo chi erano le “etnie” in guerra. Termine fra l'altro abusato ed errato per classificare quella guerra, ma ho parlato di persone che sono state vittime di altre persone. Non era una guerra etnica ma nazionalista! Dovremmo imparare a capire che il nazionalismo è il vero nemico da battere. Fino a quando divideremo le persone su base “nazionale” e si continuerà a pensare che il sangue che scorre nelle mie vene è “superiore” a quello che scorre nelle vene del mio vicino e che il mio dolore è più forte del tuo dolore, Srebrenica non sarà servita a nessuno e non servirà, purtroppo, neanche ricordarla.

Giacomo Scattolini,
Fotografo e scrittore

venerdì 4 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Stefania Sarallo/Confronti

«Adesso vi portiamo in un posto speciale». Con questa promessa, complici e visibilmente orgogliose delle bellezze del nostro Paese, ci dirigemmo verso il colle  Aventino in compagnia delle nostre amiche bosniache della Cooperativa Potočnica*, S. e N. La primavera era alle porte, ma aveva da poco piovuto e un venticello fresco trasportava,  insieme all’odore inebriante della terra bagnata, l’intenso profumo degli aranci in fiori. Quando Roma si aprì imponente sotto di noi, i loro sguardi si accesero. L’emozione prese il sopravvento e fu facile anche per loro lasciarsi travolgere dall’entusiasmo. Fu un roteare di risate contagiose e un po’ “bambine”. Nicoletta si sbracciava, desiderosa di mostrare loro tutto ciò che lo sguardo era in grado di afferrare. Fu a quel punto che, inaspettatamente, S. incupita in volto disse: «È tutto così bello qui, ma quando verrete in Bosnia noi potremo mostrarvi solo pietre e le tombe dei nostri cari… ». Non è così, cara amica. Il tuo Paese ha molto da mostrare non solo a noi, ma al mondo intero: il coraggio con il quale continuate a r-esistere e a fare Memoria, la solidarietà che vuole andare oltre quei confini definiti a tavolino, il lavoro attraverso il quale la terra martoriata tornerà fertile. Ciò che state coltivando oggi darà frutti ai vostri figli e nipoti. Continuiamo insieme a lavorare e a credere che quel futuro sarà possibile.

* Potočnica è il nome di una cooperativa agricola femminile che ha sede a Potočari, la frazione di Srebrenica dove sorge il Memoriale delle vittime del genocidio dell’11 luglio 1995. In bosniaco Potočnica denomina una pianta, il Myosotis, in italiano il “nontiscordardime”

Stefania Sarallo

Giornalista della testata Confronti

giovedì 3 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Tullio Bugari

Quel giorno di luglio mi trovavo in un'assolata e pigra Ancona, di mare e di vacanza. Allora non c'era il web ma le notizie rimbalzavano ugualmente veloci, qualcosa avevo letto e capito, seguivo già con attenzione le vicende di quella guerra e mi feci subito un'idea dell'enormità che stava accadendo, sentendomi addosso un senso d'impotenza totale. Divenne questo l'argomento a pranzo, in una trattoria del centro, tra "compagni", in quegli anni in cui tutto era diventato "ex", dal comunismo, alla Jugoslavia, al blocco sovietico e un po' anche a molti di noi stessi. Il massacro di cui giungeva notizia sembrava così grande da non essere creduto, così non mancò nemmeno qualcuno, forse "più nostalgico" di altri, definì il tutto "propaganda capitalista" per mettere in cattiva luce gli ultimi difensori del socialismo, identificati in quel caso con il governo di Milosevic e i suoi alleati. Mi rendo conto che questo tipo di discussioni  dopo quasi vent'anni sembrano altrettanto irreali. Non so perché in genere di fronte a queste stragi, il mio primo pensiero va sempre all'incredulità, e di conseguenza all'indifferenza e superficialità di chi ascolta. Certo, la propaganda esiste davvero e ogni notizia va vagliata, ma, appunto, vagliata e non accettata per fede o respinta con pregiudizio. Mi vengono in mente, ad esempio, i tanti che muoiono in barca nel Mediterraneo, tra l'indifferenza e il pregiudizio dei molti, che non ne vogliono sapere di quel dramma. Ma potrei citare anche le tante guerre odierne, nel mediterraneo. Srebrenica è questo buco nero delle nostre contraddizioni e delle nostre impotenze. Impotenza nel non renderci abbastanza autonomi e critici di fronte alle vere propagande, quelle dei nazionalismi e dei razzismi, che non si limitano a inventare un singolo fatto ma cambiano nel tempo, lentamente ma in modo duraturo, i nostri linguaggi e il modo di vedere la realtà, distorcendo noi stessi le notizia quando ci arrivano. In guerra e nelle stragi di questo tipo, di solito è anche la nostra ragione critica che muore. Mi viene in mente questo su Srebrenica.

Tullio Bugari,
Scrittore, sindacalista

mercoledì 2 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Enisa Bukvić

Credo che ricordare il genocidio di Srebrenica, l’11 luglio di ogni anno, sia molto importante sia per poter esprimere e curare dolori e traumi sia come monito, affinché non accada mai più. La comunità internazionale, inoltre, ha tante responsabilità, che non vanno sottaciute, come tantissime sono le responsabilità della Serbia e della Repubblica serba di Bosnia. In Europa vanno in giro dicendo di non conoscere la guerra da ormai sessant’anni. Non è vero. La Bosnia Erzegovina e Srebrenica sono in Europa. Il genocidio di Srebrenica si è verificato in Europa, dopo i tanti “mai più” che hanno fatto seguito alle atrocità della seconda guerra mondiale.

Enisa Bukvić,
Scrittrice, attivista per i diritti umani

martedì 1 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Francesca Solinas

Corri, corri lungo la Drina
Drina blu
Drina bianca
Drina verde
Drina che divise le terre della paura
Drina che unì due terre allo specchio
Bambino sulla riva della Drina
Bambino senza nome
Bambino che non era nessuno ed eravamo tutti
Tu guardavi oltre il fiume
Sole sul bambino, sole sulla Drina
Tra le foglie, tra le sponde del fiume blu, luce.
Corri, corri lungo la Drina,
corre la Drina, corre tra i monti accanto a un bianco pendio.
Una farfalla gialla sul marmo bianco,
sul bianco pendio del silenzio.

                                                                                Francesca Solinas,
partecipante alla gita scolastica con il liceo classico Minghetti di Bologna
dopo la visita al memoriale di
Potočari