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sabato 4 luglio 2015

Srebrenica 20 anni dopo: la prima settimana nel ricordo con #MeseDellaMemoria

In questo primo fine settimana di luglio continuiamo a nutrire la memoria raccogliendo i pensieri e ricordi sul ventennale del genocidio di Srebrenica pubblicati nella settimana appena trascorsa.

Il primo ricordo è di Enisa Bukvić.

Sono passati vent'anni dal genocidio di Srebrenica.
Il dolore è rimasto lo stesso, forse è anche aumentato. Le madri, le sorelle e le figlie continuano a cercare i resti dei loro cari, uccisi durante il genocidio. Alcuni – i serbi bosniaci coinvolti in questa disumana vicenda – girano liberi per Srebrenica o nelle città vicine, incontrando spesso per strada le persone alle quali hanno ucciso i loro affetti più cari. Molti di questi criminali di guerra oggi lavorano nella polizia della Repubblica serba di Bosnia (Rs).
Recentemente, durante un viaggio nella Rs ho parlato del genocidio con alcune donne. Dicono che i musulmani bosniaci inventano i numeri dei morti. Negano tutto, così come a negare si affrettano i loro politici. E la Serbia sostiene tutto questo.
Finora sono stati identificati e sepolti nel Memoriale di Potočari poco più di 6.000 corpi grazie al lavoro fatto da esperti internazionali e locali, utilizzando avanzati test del Dna. Tutto certificato. Il genocidio di Srebrenica è riconosciuto a livello internazionale. Nonostante tutto, lo negano. Perché è così difficile accettare il genocidio, se è stato compiuto dalla propria comunità? Forse la popolazione della Rs si sente identificata con i criminali di guerra. E allora reagisce negando. È una possibilità.
Esiste anche una luce in questa vicenda. L'associazione Donne in nero di Belgrado cerca di risvegliare le coscienze dei serbi parlando apertamente del genocidio e unendosi all'associazione delle Madri di Srebrenica.
Credo che prima e poi i serbi bosniaci e i serbi dovranno accettare l’evidenza del genocidio di Srebrenica e tutto male compiuto in Bosnia dai criminali di guerra appartenenti alla loro comunità. È necessario per il bene delle future generazioni: voglio credere in questo.
Le responsabilità per il genocidio sono a carico della Rs, della Serbia e delle Nazioni Unite oltre che della comunità internazionale. Le Nazioni Unite avevano posto sotto la loro protezione questa enclave con la risoluzione 819. E invece i militari olandesi di stanza a Srebrenica nel luglio del 1995 hanno disarmato la popolazione musulmana promettendo sicurezza, poi sono rimasti a guardare il compiersi del genocidio. E nessuno ha mai pagato neanche per questo.

Continuiamo con Marco Travaglini.

Srebrenica, fine secolo
Ogni volta che torno da Srebrenica e da Potočari, porto con me le immagini del filmato che documenta lo sporco “lavoro” degli “Scorpioni”, delle truppe paramilitari d’assalto, delle milizie del boia Mladić. Si filmarono da soli, in preda a un delirio di onnipotenza, per testimoniare le loro nefandezze. Si vedono mentre inseguono i fuggiaschi nei boschi, puntando le armi su una fila di bosniaci disperati. Sanno cosa fare: prendono un uomo alla volta, lo portano in mezzo alla boscaglia, gli sparano. S’intuisce la loro richiesta prima di ogni esecuzione: “Guarda per terra”. Poter non guardare in faccia la propria vittima, hanno spiegato gli psicologi, è ciò che serve anche al più duro dei criminali per resistere allo stress di un genocidio. È una richiesta allucinante, come dire “ora ti sparo. Abbassa gli occhi e muori. Muori, ma non guardarmi”.
Le immagini scorrono nella fabbrica di batterie fredda e silenziosa, incollando gli sguardi allo schermo. Un silenzio che si fa ancora più assordante, spezzato di tanto in tanto da qualche rumore metallico (basta appoggiarsi o inciampare in qualche struttura per provocarlo e amplificarlo nel vuoto di questi enormi scatoloni di ferro e cemento). L’atmosfera è sempre pesante e la tensione diventa palpabile, densa. Un grumo di emozioni s’accumula e fatica a sciogliesi in uno stress emotivo. Viene il magone e in fondo è un atto liberatorio, un modo per espellere il veleno inoculato negli animi da queste immagini che non sono tratte da un film ma dalla testimonianza, diretta e cruda, di una realtà violenta e arrogante. Sembra di udire la voce profonda e un po’ rauca di Giovanni Lindo Ferretti. Ne immagino la faccia scavata, senza età mentre canta Memorie di una testa tagliata. Parole che fanno riflettere lì, a Srebrenica.
“Chi è che sa di che siamo capaci tutti, vanificato il limite oramai. Vanificato il limite, sotto occhi lontani, indifferenti e bui…Pomeriggio dolce assolato terso, sotto un cielo slavo del Sud. Slavo cielo del Sud non senza grazia”.
Un limite oltrepassato, calpestato, negato con un cinismo paragonabile solo alla pianificazione nazista dell’Olocausto. E tutto questo cinquant’anni dopo. Segno che la storia, troppe volte, non insegna niente, nonostante offra un infinità di occasioni su cui riflettere, da cui imparare. Quando si esce da quei capannoni è come s’uscisse da una tomba. Qui è il cuore della memoria rimossa dell’Europa, dove esiste un Islam europeo, ma è un’anomalia che disturba, nello schema dello scontro Oriente-Occidente.
Predrag Matvejević, scrittore e grande intellettuale balcanico, nato a Mostar, croato-bosniaco con cittadinanza italiana, un giorno scrisse: “Li hanno fatti fuori per questo. Sono una complessità intollerabile in un mondo fatto di bianco e nero. Oggi esiste solo l’Islam che spaventa. Dell’altro chi se ne frega. I musulmani dal volto umano al massimo si compatiscono, come quelli di Srebrenica. Chi se ne importa di un popolo che si fa massacrare e poi non mette nemmeno una bomba? E invece in Bosnia c’e un Islam europeo, che lascia le donne libere, le gonne corte, che accetta i matrimoni misti e quando c’è del buon vino lo beve, senza problemi. Una risorsa dimenticata, che si sarebbe potuta giocare contro i fondamentalisti”.
Pure e semplici verità che andrebbero considerate come antidoto al delirio del Califfato che preannuncia attacchi nei Balcani per “difendere i musulmani e terrorizzare gli infedeli”, richiamandosi proprio a Srebrenica.

Completiamo la settimana con il pensiero di Pierfrancesco Curzi.


Nell'abitato di Potočari, a due passi dalla fabbrica della morte e dalla spianata del pianto, in mezzo ad alcune case ridotte a ruderi, c'è un campo di calcetto. Spesso è occupato da bambini e ragazzini di varie età, impegnati a superarsi col pallone. Indossano maglie di squadre di calcio importanti, anche di italica origine. Di fronte, un piccolo negozio di alimentari e la fermata dell'autobus della linea che collega Srebrenica a Bratunac. La strada sale dolce verso la città termale, lascio l'auto a Potočari e, a piedi, raggiungo Srebrenica. Con calma, il tempo dalla mia parte. La pianura si fa campagna e di nuovo città, attraverso uno scenario noto. Reciproci saluti, l'offerta di un čaj o di un bicchiere d'acqua, l’ostacolo della lingua è solo parziale. L'ingresso a Srebrenica, il distributore sulla destra, quindi i primi palazzi, la stazione degli autobus, le baracche dei profughi ed ecco gli edifici restaurati di recente. Uno, di fianco alla sede del Comune, è diventato un hotel; quello di fronte fungeva da linea di mezzeria della strada, oggi ospita negozi, caffè e ristoranti. Salgo fino alla piazza principale, eccolo il caffè all'aperto, ricavato dentro un container, ricordo dei giorni dell'inferno. Sempre a piedi imbocco la stradina al suo fianco salendo ancora verso l'hotel Domavia, quanto meno i resti abbandonati dove vivono ancora dei poveri cristi. A monte, infine, dove la strada va a morire, la sede delle mitiche terme Guber. Nelle giornate di sole, è curioso farsi ombra grazie alla torre del minareto o al campanile della chiesa, un centinaio di metri l’una dall’altro. Simbologia stravolta di una convivenza perduta. Sta imbrunendo, decido di rientrare a Potočari. Appena fuori dal centro ecco la scuola con i campetti da basket, gli stessi dove, durante la guerra d’aggressione alla Bosnia e ai bosniaci, sono cadute le granate serbe, facendo strage di innocenti. Le nuove generazioni si divertono senza avere idea di cosa è accaduto lì vent'anni prima. È un piacere ascoltare le voci dei bambini al gioco, chiudere gli occhi e immaginarsi l’inferno di allora. Posso solo immaginare. E mentre, all'imbrunire, riprendo il cammino verso Potočari, stavolta in favorevole discesa, con fatica cerco di bloccare l'incedere di una lacrima. Sconfitta annunciata.