In questo primo fine settimana di luglio continuiamo a
nutrire la memoria raccogliendo i pensieri e ricordi sul ventennale del
genocidio di Srebrenica pubblicati nella settimana appena trascorsa.
Il primo ricordo è di Enisa
Bukvić.
Sono
passati vent'anni dal genocidio di Srebrenica.
Il
dolore è rimasto lo stesso, forse è anche aumentato. Le madri, le sorelle e le
figlie continuano a cercare i resti dei loro cari, uccisi durante il genocidio.
Alcuni – i serbi bosniaci coinvolti in questa disumana vicenda – girano liberi
per Srebrenica o nelle città vicine, incontrando spesso per strada le persone
alle quali hanno ucciso i loro affetti più cari. Molti di questi criminali di
guerra oggi lavorano nella polizia della Repubblica serba di Bosnia (Rs).
Recentemente,
durante un viaggio nella Rs ho parlato del genocidio con alcune donne. Dicono
che i musulmani bosniaci inventano i numeri dei morti. Negano tutto, così come
a negare si affrettano i loro politici. E la Serbia sostiene tutto questo.
Finora
sono stati identificati e sepolti nel Memoriale di Potočari
poco più di 6.000
corpi grazie al lavoro fatto da esperti internazionali e locali, utilizzando
avanzati test del Dna. Tutto certificato. Il genocidio di Srebrenica è
riconosciuto a livello internazionale. Nonostante tutto, lo negano. Perché è
così difficile accettare il genocidio, se è stato compiuto dalla propria
comunità? Forse la popolazione della Rs si sente identificata con i criminali
di guerra. E allora reagisce negando. È una possibilità.
Esiste
anche una luce in questa vicenda. L'associazione Donne in nero di Belgrado
cerca di risvegliare le coscienze dei serbi parlando apertamente del genocidio
e unendosi all'associazione delle Madri di Srebrenica.
Credo
che prima e poi i serbi bosniaci e i serbi dovranno accettare l’evidenza del
genocidio di Srebrenica e tutto male compiuto in Bosnia dai criminali di guerra
appartenenti alla loro comunità. È necessario per il bene delle future
generazioni: voglio credere in questo.
Le
responsabilità per il genocidio sono a carico della Rs, della Serbia e delle
Nazioni Unite oltre che della comunità internazionale. Le Nazioni Unite avevano
posto sotto la loro protezione questa enclave con la risoluzione 819. E invece
i militari olandesi di stanza a Srebrenica nel luglio del 1995 hanno disarmato
la popolazione musulmana promettendo sicurezza, poi sono rimasti a guardare il
compiersi del genocidio. E nessuno ha mai pagato neanche per questo.
Continuiamo con
Marco Travaglini.
Srebrenica, fine secolo
Ogni volta che torno da Srebrenica
e da Potočari, porto con me le immagini del
filmato che documenta lo sporco “lavoro” degli “Scorpioni”, delle truppe
paramilitari d’assalto, delle milizie del boia Mladić. Si filmarono da soli, in preda a un
delirio di onnipotenza, per testimoniare le loro nefandezze. Si vedono mentre
inseguono i fuggiaschi nei boschi, puntando le armi su una fila di bosniaci
disperati. Sanno cosa fare: prendono un uomo alla volta, lo portano in mezzo
alla boscaglia, gli sparano. S’intuisce la loro richiesta prima di ogni
esecuzione: “Guarda per terra”. Poter non guardare in faccia la propria
vittima, hanno spiegato gli psicologi, è ciò che serve anche al più duro dei
criminali per resistere allo stress di un genocidio. È una richiesta
allucinante, come dire “ora ti sparo. Abbassa gli occhi e muori. Muori, ma non
guardarmi”.
Le immagini scorrono nella
fabbrica di batterie fredda e silenziosa, incollando gli sguardi allo schermo.
Un silenzio che si fa ancora più assordante, spezzato di tanto in tanto da
qualche rumore metallico (basta appoggiarsi o inciampare in qualche struttura
per provocarlo e amplificarlo nel vuoto di questi enormi scatoloni di ferro e
cemento). L’atmosfera è sempre pesante e la tensione diventa palpabile, densa.
Un grumo di emozioni s’accumula e fatica a sciogliesi in uno stress emotivo.
Viene il magone e in fondo è un atto liberatorio, un modo per espellere il
veleno inoculato negli animi da queste immagini che non sono tratte da un film
ma dalla testimonianza, diretta e cruda, di una realtà violenta e arrogante.
Sembra di udire la voce profonda e un po’ rauca di Giovanni Lindo Ferretti. Ne
immagino la faccia scavata, senza età mentre canta Memorie di una testa
tagliata. Parole che fanno riflettere lì, a Srebrenica.
“Chi è che sa di che siamo
capaci tutti, vanificato il limite oramai. Vanificato il limite, sotto occhi
lontani, indifferenti e bui…Pomeriggio dolce assolato terso, sotto un cielo
slavo del Sud. Slavo cielo del Sud non senza grazia”.
Un limite oltrepassato,
calpestato, negato con un cinismo paragonabile solo alla pianificazione nazista
dell’Olocausto. E tutto questo cinquant’anni dopo. Segno che la storia, troppe
volte, non insegna niente, nonostante offra un infinità di occasioni su cui
riflettere, da cui imparare. Quando si esce da quei capannoni è come s’uscisse
da una tomba. Qui è il cuore della memoria rimossa dell’Europa, dove esiste un Islam europeo, ma è un’anomalia
che disturba, nello schema dello scontro Oriente-Occidente.
Predrag Matvejević,
scrittore e grande intellettuale balcanico, nato a Mostar, croato-bosniaco con
cittadinanza italiana, un giorno scrisse: “Li hanno fatti fuori per questo. Sono una complessità
intollerabile in un mondo fatto di bianco e nero. Oggi esiste solo l’Islam che
spaventa. Dell’altro chi se ne frega. I musulmani dal volto umano al massimo si
compatiscono, come quelli di Srebrenica. Chi se ne importa di un popolo che si
fa massacrare e poi non mette nemmeno una bomba? E invece in Bosnia c’e un
Islam europeo, che lascia le donne libere, le gonne corte, che accetta i
matrimoni misti e quando c’è del buon vino lo beve, senza problemi. Una risorsa
dimenticata, che si sarebbe potuta giocare contro i fondamentalisti”.
Pure e semplici verità che
andrebbero considerate come antidoto al delirio del Califfato che preannuncia
attacchi nei Balcani per “difendere i musulmani e terrorizzare gli infedeli”,
richiamandosi proprio a Srebrenica.
Completiamo la settimana con
il pensiero di Pierfrancesco Curzi.
Nell'abitato di Potočari,
a due passi dalla fabbrica della morte e dalla spianata del pianto, in mezzo ad
alcune case ridotte a ruderi, c'è un campo di calcetto. Spesso è occupato da
bambini e ragazzini di varie età, impegnati a superarsi col pallone. Indossano
maglie di squadre di calcio importanti, anche di italica origine. Di fronte, un
piccolo negozio di alimentari e la fermata dell'autobus della linea che collega
Srebrenica a Bratunac. La strada sale dolce verso la città termale, lascio
l'auto a Potočari e, a piedi, raggiungo Srebrenica. Con calma, il tempo dalla
mia parte. La pianura si fa campagna e di nuovo città, attraverso uno scenario
noto. Reciproci saluti, l'offerta di un čaj
o di un bicchiere d'acqua, l’ostacolo della lingua è solo parziale. L'ingresso
a Srebrenica, il distributore sulla destra, quindi i primi palazzi, la stazione
degli autobus, le baracche dei profughi ed ecco gli edifici restaurati di
recente. Uno, di fianco alla sede del Comune, è diventato un hotel; quello di
fronte fungeva da linea di mezzeria della strada, oggi ospita negozi, caffè e
ristoranti. Salgo fino alla piazza principale, eccolo il caffè all'aperto,
ricavato dentro un container, ricordo
dei giorni dell'inferno. Sempre a piedi imbocco la stradina al suo fianco
salendo ancora verso l'hotel Domavia,
quanto meno i resti abbandonati dove vivono ancora dei poveri cristi. A monte,
infine, dove la strada va a morire, la sede delle mitiche terme Guber. Nelle giornate di sole, è curioso
farsi ombra grazie alla torre del minareto o al campanile della chiesa, un
centinaio di metri l’una dall’altro. Simbologia stravolta di una convivenza
perduta. Sta imbrunendo, decido di rientrare a Potočari. Appena fuori dal
centro ecco la scuola con i campetti da basket, gli stessi dove, durante la
guerra d’aggressione alla Bosnia e ai bosniaci, sono cadute le granate serbe,
facendo strage di innocenti. Le nuove generazioni si divertono senza avere idea
di cosa è accaduto lì vent'anni prima. È un piacere ascoltare le voci dei
bambini al gioco, chiudere gli occhi e immaginarsi l’inferno di allora. Posso
solo immaginare. E mentre, all'imbrunire, riprendo il cammino verso Potočari,
stavolta in favorevole discesa, con fatica cerco di bloccare l'incedere di una
lacrima. Sconfitta annunciata.