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lunedì 31 agosto 2015

I fatti di Aigues-Mortes in un'intervista di Radio Colonia a Enzo Barnabà

Aigues-Mortes, Francia del Sud, 17 agosto 1893. La folla inferocita, aizzata ad arte, attacca gli italiani recatisi a svolgere l’infame lavoro estivo nelle locali saline. Dieci operai italiani vengono linciati, centinaia di altri si salvano per miracolo. Episodi di razzismo che ci colpivano quando i migranti eravamo noi. Enzo Barnabà ricostruisce i fatti di quei giorni in AIGUES-MORTES, IL MASSACRO DEGLI ITALIANI e ne parla su Radio Colonia, in un'intervista che potete ascoltare a questo link.

venerdì 28 agosto 2015

2 settembre 1945: la resa formale del Giappone segna la fine della seconda guerra mondiale - libri in promozione

Tra pochi giorni, il 2 settembre, ricorrerà  il 70° anniversario della fine della seconda guerra mondiale, ricordando la resa formale dell’impero giapponese. Il conflitto, iniziato il 1° settembre del 1939 con l’attacco da parte della Germania nazista di Hitler ai danni della Polonia, costò circa 60 milioni di morti e si sviluppò su differenti fronti: quello europeo, dalla Gran Bretagna alla Russia, il fronte nordafricano e quello del Pacifico con Stati Uniti e Giappone contrapposti. In Europa si considera terminato il conflitto dopo la battaglia di Berlino e la caduta del Terzo Reich con la resa tedesca l’8 maggio del 1945. Sul fronte del Pacifico le ostilità continuarono ancora per qualche mese e il Giappone fu piegato solo dopo i terribili e devastanti bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki del 6 e 9 agosto 1945.
Per non dimenticare, segnaliamo dalla nostra produzione alcuni testi fondamentali per capire quegli anni e come ci precipitò nel baratro più profondo:
  • Le donne della Resistenza, in cui l’autrice ripercorre i giorni della Resistenza attraverso un percorso di memoria dalle partigiane alle loro figlie e figli.
  • Napoli e la seconda guerra mondiale racconta dall’interno i giorni della liberazione di Napoli e il pesantissimo dopoguerra sotto l’occupazione americana e alleata.
  • Il bosco dopo il mare ripercorre la vicenda dei partigiani italiani durante il conflitto in Jugoslavia.
  • In Ribelli!, un cofanetto libro+dvd, sono raccolte testimonianze delle ultime partigiane e partigiani ancora vivi che motivano la loro scelta di vita e libertà.
  • Il Partigiano di piazza dei Martiri ripercorre la storia di un giovane siciliano che disertò dall’esercito monarchico per unirsi ai partigiani in Veneto, dove trovò la morte.
  • In bicicletta lungo la Linea Gotica è un modo originale e intelligente per camminare tra boschi e sentieri dove sono avvenute battaglie e scontri, alle volte fratricidi, ricordando la Storia.
  • 1926-1939, l’Italia affonda ci porta a conoscere il mondo dell’antifascismo a Roma e nei Castelli Romani.
  • Nola, cronaca dall’eccidio è ambientato dopo l’armistizio del settembre 1943 e descrive, attraverso la vicenda di una giovane coppia, una rappresaglia tedesca ai danni di un gruppo di ufficiali italiani.
  • Il barbiere zoppo, in anteprima solo sul nostro sito, ci fa rivivere dei momenti della seconda guerra mondiale e della Resistenza attraverso un percorso di ricerca delle proprie origini intrapreso da una giovane a fine Anni ’60.

giovedì 27 agosto 2015

Daniela Tazzioli confronta la scuola italiana e quella svizzera

A pochi giorni dall’inizio del nuovo anno scolastico, che vedrà l’applicazione della prima parte della riforma la Buona Scuola del governo Renzi, mettiamo a confronto la realtà nazionale con quella elvetica grazie all’esperienza in prima persona di un’insegnante emiliana, prima docente in Italia e ora in Svizzera. Da questa conoscenza diretta nasce La scuola diversa. Manuale di sopravvivenza (in classe e fuori) fra Italia e Svizzera, dove la scuola pubblica italiana è maltrattata, tartassata dai governi che si sono susseguiti, vilipesa e offesa, eppure resistente; quella svizzera ci sembra apparentemente perfetta e ipertecnologica eppure così vuota, disumana, capace persino di umiliare i “diversi” e di sfornare in serie soldatini del tutto privi di cultura umanistica e artistica. Non per niente la Svizzera è uno dei Paesi col più alto tasso di suicidi in Europa…
“Questo libro è il diario di una vocazione, l’appassionata, partecipe e spesso ‘avvelenata’ (nel senso gucciniano) dichiarazione d’amore di un’insegnante per il proprio mestiere, spesso e volentieri umiliato tanto dagli infernali mezzi corazzati tritatutto del nostro governo, quanto dai rigidi criteri di selezione su cui si fonda il sistema scolastico svizzero”. (Andrea Demarchi)


L’autrice

Daniela Tazzioli è cittadina italo-svizzera. Dopo la laurea in Storia all’università di Bologna si è specializzata in Storia delle religioni e antropologia religiosa alla Sorbona di Parigi. Finalista e vincitrice di concorsi di poesia, ha pubblicato racconti e poesie in raccolte collettive. Vive e lavora a Basilea. Per Infinito edizioni ha pubblicato “Puro amore” (2010) e “Fiabe dal Nord” (2010).

martedì 25 agosto 2015

Il #crollo della #borsa #cinese, un film già visto

Puntualmente sono arrivati i titoli i dei giornali, sembra un bollettino di guerra: panico in borsa, crollo dei listini, azioni affondate, denaro bruciato. Ci si aspetta di trovare macerie, relitti e cenere, ma la lettura è molto più semplice: i soldi sono passati di mano in mano, qualcuno ha perso e qualcuno ha guadagnato. La finanza, nella sua complessità è una materia molto semplice: la somma di guadagni e perdite è uguale a zero.

Sembra che questa volta l’origine del panico sia la crisi della borsa cinese, cresciuta del 151% da giugno 2014 a giugno 2015 e calata del 35% negli ultimi 3 mesi. Una nuova bolla? Forse, anche se è presto per dirlo. Di certo molti elementi lo fanno pensare. Prima del crollo, le azioni del listino di Shangai avevano raggiunto un valore 59 volte superiore agli utili delle aziende, cioè vicino alla follia. I risparmiatori cinesi hanno così iniziato a indebitarsi per comprare azioni, mettendo le stesse a garanzia dei finanziamenti ottenuti. Si calcola sia di 334 miliardi di euro l’ammontare del credito concesso dai broker alle famiglie cinesi con il solo scopo di speculare in borsa.

Denaro creato dal nulla, come accaduto nel 1929 negli Stati Uniti: banche e risparmiatori illusi che il rialzo di borsa potesse durare all’infinito. Illusi, come Pinocchio, che il denaro si potesse moltiplicare magicamente. Il finale è già scritto fin dall’inizio: al primo segnale di panico le banche richiedono il denaro prestato e i risparmiatori sono costretti a vendere, senza più alcuna attenzione al prezzo o ai fondamentali, scatenando il panic-selling.

A ciò si aggiunge che i mercati finanziari sono “comandati”. Le“mani forti” determinano la direzione del mercato, ponendo il piccolo risparmiatore in balìa di movimenti che quasi sempre gli comportano perdite.
A questo proposto basti pensare, per esempio, come tre fondi sovrani (Norvegia, Cina e Paesi Arabi) detengano oltre 18 miliardi di euro di quote della borsa di Milano.

La storia è piena di bolle speculative e crisi finanziarie. Dalla bolla dei tulipani del 1600, quando con due bulbi si poteva acquistare una casa ad Amsterdam, a quella della new-economy del 2000, quando la capitalizzazione di borsa della matricola Tiscali superava quella della Fiat.

Nel libro “Così banche e finanza ci rovinano la vita” gli autori Guerrieri, Giovanardi e Cattani, consulenti finanziari indipendenti, ripercorrono la storia e spiegano come tutte le bolle speculative abbiano gli stessi elementi in comune, fornendo utili consigli su come difendersi. La molta liquidità, i bassi tassi di interesse (che inducono i risparmiatori ad assumersi maggiori rischi) l'illusione del facile guadagno sono elementi presenti anche oggi sui mercati finanziari, quindi l'attenzione deve essere massima e una verifica sul rischio degli investimenti detenuti è quanto mai opportuna.


È un film già visto. Chi governa i mercati finanziari è come un regista seduto sulla sedia con la sceneggiatura pronta. Deve solamente scegliere la trama preferita tra Cina, Grecia, rialzo dei tassi negli Usa, e quando impartire l’ordine: avanti la prossima bolla!

lunedì 17 agosto 2015

Aigues-Mortes, i nomi delle vittime del massacro del 17 agosto del 1893

Aigues-Mortes è un piccolo comune della Francia del sud circondato dagli stagni della Camargue e da ampi territori paludosi. Dalle paludi si estrae il sale, il prezioso oro bianco, che rappresenta la vera ricchezza del paese. Il lavoro nelle saline è durissimo, pagato con pochi franchi al giorno e non mancano le rivalità tra gli operai francesi e quelli italiani stagionali, accusati dai francesi di essere preferiti dai proprietari delle saline.
È il 17 agosto del 1893 ed è iniziata la faticosa fase della raccolta e trasporto del sale: alcuni scontri tra lavoratori francesi e italiani registrati il giorno precedente aizzano la folla aizzata nella caccia all’italiano. Dieci lavoratori – la maggior parte provenienti dalle campagne del cuneese – resteranno uccisi, tantissimi i feriti. Un episodio di feroce razzismo avvenuto quando gli emigranti eravamo noi e su cui è sceso per decenni un velo di silenzio e di omertà.
Conosciamo l’identità di otto dei morti uffi­ciali. Cinque sono piemontesi: Carlo Tasso, 58 anni, di Montalero (frazione di Cerrina Monferrato, in provincia di Alessandria); Vittorio Caffaro, 29 anni, di Pinerolo, in provincia di Torino; Bartolomeo Calori, 26 anni, di Torino; Giuseppe Merlo, 29 anni, di San Biagio (frazione di Centallo, in provincia di Cuneo) e Giovanni Bonetto, 31 anni, del villaggio occitano di Frassino (in Val Varaita, provincia di Cuneo); un ligure, Lorenzo Rolando, 31 anni, di Al­tare (provincia di Savona); un lombardo, Paolo Zanetti, 29 anni, di Nese (oggi frazione di Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo); un toscano, Amaddio Capo­ni, 35 anni, di San Miniato, in provincia di Pisa, che durante il viaggio di ritorno morì all’ospedale di Porto Maurizio (oggi quartiere di Imperia). Il nono cadavere non potrà essere identificato, così come il decimo sep­pellito in tutta fretta – clandestinamente, si potrebbe dire – il 21 settembre, senza che ne venisse data comu­nicazione alle autorità italiane e che, come vedremo, con ogni probabilità è quello di Secondo Torchio, 24 anni, di Tigliole (Asti).
“Barnabà restituisce appieno alla memoria, tramite un encomiabile lavoro di ricerca, quel che fu in Francia, ad Aigues-Mortes, il 17 agosto 1893, una sorta di pogrom, più propriamente un massacro”. (Giuseppe Carlo Marino)
Enzo Barnabà, Aigues-Mortes. Il massacro degli Italiani (Infinito edizioni).

giovedì 13 agosto 2015

Aigues-Mortes, 17 agosto 1893: il massacro degli Italiani, quando i migranti eravamo noi

Un episodio di storia dimenticato da una parte e strumentalizzato dall’altra, un accurato lavoro di ricerca e ricostruzione dei fatti sono alla base del nuovo libro di Enzo Barnabà dal titolo “Aigues-Mortes, il massacro degli Italiani”. Pubblichiamo qui un estratto della prefazione di Stefania Parmeggiani.

Aigues-Mortes, il massacro degli Italiani di Enzo Barnabà è un saggio che ricostruisce il massacro avvenuto ad Aigues-Mortes, nella regione francese della Linguadoca-Rossiglione, il 17 agosto 1893 e lo inquadra in un contesto politico e sociale: le tensioni tra Francia e Italia, la paura di un conflitto bellico, la guerra doganale, gli equilibri interni al nostro Paese, la depressione economica, le ideologie nazionaliste, le contraddizioni del movimento operaio e socialista europeo. In realtà, oltre alla verità dei fatti, racconta un’altra storia. Interessante per gli italiani di oggi che reagiscono con rabbia e paura alla convivenza con immigrati economici e profughi politici.
Ai lettori propongo un esercizio. Leggete questo breve libro tre volte. La prima lasciandovi andare alla narrazio­ne. Vi ritroverete nelle saline francesi a respirare l’odore della fatica, dell’umiliazione e della necessità che impre­gnavano i vestiti di quei nostri lontani parenti. Insieme a loro stringerete i denti e accetterete condizioni salariali pessime, ignorerete gli insulti di chi vi accusa di rubargli il lavoro, di non avere coscienza sindacale e dignità. (…)
Poi una mattina sentirete le voci farsi più minacciose, sarete circondati da una folla di uomini e ragazzini armati di randelli, forconi, pale. Scapperete tra i vigneti, verrete inseguiti e abbattuti.(...) Per dieci non ci sarà nulla da fare. Sette saranno seppelliti di notte in una fossa comune. Come se fossero dei la­dri, dei senza Dio, dei paria. Arrivati alla fine del libro vi sarete fatti strada tra le nebbie che oggi avvolgono il massacro di Aigues-Mortes, uno dei più feroci che la nostra storia di emigranti abbia mai vissuto.
Ricominciate a leggere, concentrando la vostra at­tenzione sulle dichiarazioni dei testimoni e sulle parole delle autorità. Vi suoneranno famigliari: ricordano la psicosi dell’invasione e i fanta­smi che da anni si aggirano nel nostro Paese: gli ex­tracomunitari che sottraggono il lavoro, che occupano le case popolari, che rubano e violentano, che fanno proselitismo, che sono terroristi, che ci colonizzano e stravolgono la nostra identità; «Che si ammazzino tra di loro o che affondino in mezzo al mare».
Ascoltate il silenzio della maggioranza, di quegli abi­tanti che non alzarono un dito per difendere gli italia­ni, che assistettero passivi alla violenza o che parteci­parono alle manifestazioni contro gli stranieri. Quel silenzio somiglia terribilmente a quello che oggi ac­compagna le stragi nel Mediterraneo.
Leggete una terza volta, ma soffermandovi sugli arti­coli di giornale che l’autore del saggio non solo cita tra le fonti, ma chiama sul palcoscenico della storia. Come il fornaio, il parroco, il sindaco, il prefetto, il procura­tore generale di Nîmes, il giudice istruttore, le vittime e gli assassini. Attori non testimoni. E osservate quegli articoli con gli occhi di Walter Lippmann, il giornalista americano due volte premio Pulitzer, precursore degli studi sulla manipolazione mediatica. (…)

Vedrete il massacro di Aigues-Mortes con altri occhi, come prodotto non solo della crudeltà di quegli anni e della guerra tra poveri che si consumava nelle saline francesi, ma anche come la conseguenza drammatica di una visione distorta e semplificata degli emigrati italia­ni. Capirete quanto può essere devastante uno stereoti­po e l’uso politico che ne viene fatto, come la cronaca possa essere manipolata a beneficio delle politiche di un Paese, di un governo o di una parte politica. Ca­pirete infine perché l’autore del saggio evita ogni ten­tazione letteraria, pur avendo tra le mani un dramma che tanto si presta all’affabulazione. Non è solo rispetto per la Storia, ma anche volontà di sottrarre quel mas­sacro all’emotività. I fatti di Aigues-Mortes sono stati a lungo ostaggio dei sentimenti, occultati dalla Fran­cia, minimizzati dagli organi filogovernativi del governo Giolitti ed enfatizzati dall’opposizione crispina. Con Aigues-Mortes, il massacro degli Italiani s’interrompe il corto circuito della razionalità e del senso critico che si protrae da più di un secolo e si scopre nella riflessione un antidoto ai moderni stereotipi sociali.

martedì 11 agosto 2015

#AiguesMortes 17 agosto 1893, quante e quali vittime - di Enzo Barnabà

Ogni tanto, un giornale, una rivista o un sito internet decidono di occuparsi del massacro avvenuto ad Aigues-Mortes il 17 agosto 1893; approssimazioni e imprecisioni vengono non di rado diffuse presso il grande pubblico come verità. I fatti, com’è noto, si svolsero nelle saline della città dove i circa 500 italiani (400 stagionali provenienti soprattutto dal Piemonte e dalla Toscana e 100 già immigrati in Francia) ivi convenuti per la breve stagione della raccolta del cosiddetto oro bianco furono aggrediti con inaudita violenza.
Viene immancabilmente affermato che gli autoctoni erano esasperati perché la Compagnia delle Saline preferiva assumere gli italiani i quali offrivano le loro braccia a un prezzo più basso. Un’affermazione di apparente buon senso, ma falsa perché agli immigrati veniva rimproverato esattamente l’opposto: si lavorava a cottimo – “la peggiore forma di concorrenza tra lavoratori” aveva dichiarato appena una settimana prima il Congresso dell’Internazionale Socialista tenutosi a Zurigo – e gli italiani si distinguevano per l’energia dispiegata: erano venuti a fare la stagione per riportare a casa il gruzzolo più consistente possibile. La Compagnia, inoltre, non assumeva nessuno, non conosceva neppure il nome degli operai; trattava con i caporali – francesi o italiani che fossero – i quali le rivendevano con lucro il lavoro altrui.
Il numero dei morti viene talvolta definito “incerto”, talaltra viene fatto variare “tra i 15 e i 120”, spesso si riporta come attendibile la cifra di 50 vittime avanzata dall’“autorevole Times di Londra”. In alcuni casi, a queste vittime italiane, vengono aggiunti 4 morti da parte francese. In questo generale annaspamento, un posto di rilievo merita l’Enciclopedia Treccani che, nell’edizione del 1929, così scrive: “Il 19 agosto 1893, in un periodo di tensione franco-italiana, circa 400 operai italiani, che lavoravano in A., furono gettati nel Rodano dalla folla imbestialita”. Affermazione surreale visto che il Rodano non passa da Aigues-Mortes. La data del 19 agosto ci fa supporre che si tratti piuttosto di quella del giornale consultato dal compilatore della voce. E qui sta il punto.
Durante i giorni successivi all’eccidio, le prime pagine dei quotidiani italiani riportano con grande evidenza le notizie provenienti da Parigi. Ma cosa se ne sa a Parigi di ciò che è avvenuto a 800 chilometri di distanza? Nessun giornalista residente nella capitale pensa bene di recarsi in loco. Pervengono dispacci dal capoluogo del dipartimento, Nîmes dove il sentito dire e le manipolazioni prefettizie regnano sovrane con i quali si confezionano gli articoli che vengono spediti alle redazioni della Penisola. Nella selezione dei vari dati di cui si viene a conoscenza, risulta essere determinante l’orientamento politico del giornale: conciliante l’atteggiamento degli organi filogovernativi Giolitti aveva iniziato una marcia di riavvicinamento verso la Francia che l’eccidio ostacolava –, catastrofista invece quello dei fogli triplicisti legati all’opposizione crispina.
Queste fonti giornalistiche alimentarono per decenni gli scritti che in Italia fecero riferimento all’eccidio: manuali scolastici, storie generali, enciclopedie, e quant’altro. In Francia, invece, l’avvenimento venne totalmente occultato: neanche i libri sulla storia della città di Aigues-Mortes ne facevano menzione. Solo negli anni Settanta del secolo scorso un gruppo di ricercatori, i cui nomi sono Pierre Milza per la Francia, Nunziata Lo Presti, Lucio D’Angelo, Teodosio Vertone e il sottoscritto per l’Italia, pensò bene di andare a frugare tra le carte degli archivi e nei loro articoli la verità cominciò a farsi strada. Nel 1993, in occasione del centesimo anniversario, chi scrive pubblicò in Italia e in Francia il primo libro dedicato all’argomento1 articolando la ricostruzione in tre momenti: contesto, fatti e conseguenze. Nel 2010, giunse il libro di Gerard Noiriel che con padronanza inquadra l’avvenimento all’interno delle tensioni della Terza Repubblica e formula interessanti ipotesi di ascendenza sociostorica, ma che non si scosta da un’ottica francocentrica, ignorando sostanzialmente la produzione storiografica e gli archivi in italiano.
Malgrado le certezze acquisite dalla storiografia, le principali, se non le sole, fonti di molte delle successive citazioni e ricostruzioni continuarono ad essere gli articoli pubblicati a caldo dalla stampa dell’epoca ai quali abbiamo fatto cenno. Metto da parte la frottola allucinante dei due bambini italiani impalati e portati come trofeo per le strade della città e passo a quanto ebbe a scrivere un noto giornalista di Repubblica nel 2009. Una “guerra tra poveri” contro la manodopera italiana dichiarata in Inghilterra dai locali al grido di British jobs for British workers gli fece venire in mente Aigues-Mortes dove scrisse dopo aver consultato la raccolta di un vecchio quotidiano alcune decine di operai italiani vennero uccisi, scuoiati e messi sotto sale. La fonte mescolava (per superficialità o per malafede?) l’eccidio che era appena avvenuto con un episodio che aveva avuto luogo nella stessa cittadina qualche secolo prima, nel 1421, quando ai cadaveri dei soldati borgognoni trucidati dai nemici venne fatto subire quel sanitario così si pensava trattamento. Talvolta non si tratta tanto di mancata verifica delle fonti quanto di pregiudizio ideologico, magari inconscio: in occasione del 120° anniversario, nell’agosto 2013, il Secolo XIX ospitò un articolo di un autorevole storico dell’Università di Genova secondo il quale la xenofobia anti-italiana era dovuta alla presenza di operai provenienti dall’Italia meridionale. No, caro professore, il razzismo non guarda in faccia a nessuno: neanche un immigrato nelle saline era nato a sud della provincia di Pisa.
La consultazione degli archivi di Aigues-Mortes, di Angoulême (dove si svolse il processo), del MAE di Roma e dei comuni dai quali provenivano le vittime ci permette di conoscerne il numero e l’identità. Il massacro si consumò verso il mezzogiorno di quella lugubre giornata. La mattina, gli operai italiani, in gran parte piemontesi, che lavoravano nella salina della Fangouse, a otto chilometri dalla città, vedono arrivare circa cinquecento malintenzionati armati di randelli e di forconi. Alcuni scappano, altri si rifugiano, su consiglio dei pochi gendarmi accorsi sul posto, nella baracca che costituisce il loro misero alloggio. La costruzione viene presto assediata e presa d’assalto; qualcuno riesce a salire sul tetto, lo sfonda e prende a lapidare i malcapitati. Si teme il peggio. Al capitano Cabley che comanda i gendarmi perviene la notizia che, su indicazione del prefetto, gli italiani sono stati tutti licenziati e che vanno portati alla stazione perché tornino al loro paese.
Inizia dunque la marcia verso la stazione: un’ottantina di italiani protetti da venticinque gendarmi a cavallo e seguiti da una folla delirante che, appena si crea un varco, non esita a colpire selvaggiamente con randelli e forconi. Molti, quando possono, fuggono tra i vigneti che costeggiano il sentiero in cerca di salvezza; vengono sistematicamente rincorsi e, se acciuffati, colpiti senza pietà. Tra i fuggiaschi, Secondo Torchio, un giovane di Tigliole (Asti). Carlo Bonello, un altro tigliolese che si trovava assieme a lui, dichiarerà che Secondo che non mangiava da due giorni perché non aveva ancora potuto essere assunto dopo essere scappato, era stato inseguito e raggiunto da una “turba inferocita”. Lo aveva visto allargare le braccia e cadere a terra in mezzo alla campagna. Tra gli altri fuggitivi, Giovanni Giordano (il “portavoce degli italiani”), ventiquattrenne di Palanfrè (frazione di Vernante), che viene raggiunto da quattro individui che lo buttano a terra e lo picchiano senza tregua. Prima che muoia, uno dei francesi invita i propri compagni a fermarsi perché ha riconosciuto nel Giordano un vecchio compagno di lavoro. Nell’aria risuonano gli spari di alcuni bracconieri che si sono uniti alla folla.
Allorquando le mura medievali della città cominciano a farsi più nitide e si pensa che il calvario stia per finire, dalla Porta della Regina si vede uscire un’altra banda formata da centinaia di esagitati. Lo scontro è inevitabile e la caccia all’uomo non trova ostacoli. Per mettere fine al massacro, il capitano fa sparare in aria. Quando si riesce a ripartire, in terra giacciono sei cadaveri.
Svoltato l’angolo delle mura, la strada si restringe. Enormi pietre vengono lanciate da ogni parte. “Come bestie portate al macello – scrive il Procuratore generale – gli italiani si sdraiano sulla strada, sfiniti, aspettando la morte, lapidati, storditi, lasciando a ogni passo uno dei loro”. Un certo Buffard, tenendo il manico di una pala con le mani, colpisce i feriti con inaudita violenza. Qualcuno si salva fingendo di essere morto. Per un altro italiano, però, non ci sarà scampo.
Si riesce a porre in salvo la trentina di sopravvissuti nella vicina Torre di Costanza. Alle 17 giunge da Nîmes la truppa tante volte richiesta nel corso della giornata. Il capitano con alcuni uomini si reca sui luoghi del massacro con alcuni carretti. Caricano sette cadaveri e diciassette feriti che trasportano nell’ospizio cittadino gestito da suore.
La mattina del giorno successivo, 18 agosto, vengono fatti fotografare i sette morti che saranno sepolti anonimamente in una fossa comune nel cuore della notte. Le foto vengono consegnate al console italiano a Marsiglia Bartolomeo Durando, il quale il 20 è arrivato ad Aigues-Mortes, ai fini dell’identificazione. Durando, accompagnato dall’assessore Advenier che è anche agente consolare italiano, fa visita ai feriti (“assaliti con randelli, mazze, pietre e forconi per finirli come si farebbe contro i cani idrofobi” scriverà) che sono rimasti all’ospizio perché intrasportabili. Uno di essi, il ventinovenne pinerolese Vittorio Caffaro, morrà di tetano il 17 settembre dopo atroci sofferenze.
Gli altri italiani già nel tardo pomeriggio del 17 sono stati fatti salire su un treno alla volta di Marsiglia. Chi non risiede in Francia o non deve farsi medicare nel locale ospedale prosegue per l’Italia. Tra questi, c’è Amaddio Caponi, trentacinquenne di San Miniato (Pisa). Sul treno si sente male. Viene fatto scendere alla stazione di Porto Maurizio e portato nel locale ospedale dove morrà il 26 agosto. La sua famiglia riceverà l’indennizzo di 19.000 lire.2
Al ritorno di Durando in Consolato, si cerca di identificare le vittime tramite le foto, si stende la lista degli operai italiani presenti nelle saline e quella dei dispersi. Per le prime due operazioni ci si rivolge ai connazionali che sono rimasti in Francia e in particolare ai capisquadra; per la terza, si registrano testimonianze “Con me c’era XX che poi non ho più visto” o lettere che pervengono dall’Italia “Mio padre XX non dà più segni di vita, pensiamo si trovasse ad Aigues-Mortes. Si tratta quindi piuttosto di una lista di presunti dispersi che andrà assottigliandosi col passare del tempo. Alcuni autori danno per buona la prima lista contenente quattordici nomi che vengono aggiunti ai “morti ufficiali” per fare un bilancio complessivo. Si ignora che in quella lista si trovano Ernesto Giuliano di Oneglia, Chiaffredo Mainero di Moretta, Ermolao Marconi di Calci, Giovanni Reggi e altri che sono vivi e vegeti come ci informano i successivi documenti consolari. Nessun familiare di questi presunti morti, inoltre, farà domanda di indennizzo all’apposita Commissione governativa che pubblicherà i risultati dei suoi lavori nella Gazzetta Ufficiale del 19.7.1894. Tra i novantasei feriti (“gravemente”, “seriamente” e “leggermente”) che saranno indennizzati si trovano invece alcuni dei nominativi della prima lista dei dispersi.
Nella lista si trova anche il nome di Secondo Torchio del quale abbiamo parlato. La mamma, Teresa Secco, viene a sapere da Carlo Bonello quanto abbiamo più su riferito. È quindi convinta, come afferma al sindaco di Antignano, paese nel quale abita, che suo figlio sia stato ucciso. Non riceve alcun indennizzo perché il corpo di Secondo non è stato ritrovato e non si è quindi sicuri della sua morte. Ancora 13 anni dopo, non avendo più visto il figlio e vivendo nella miseria, reitera, senza successo, la richiesta di indennizzo tramite un deputato locale. È da supporre, invece, che Secondo Torchio sia rimasto vittima dell’omertà, oltre che della follia xenofoba. Il 21 settembre 1893 il vicario di Aigues-Mortes, dà “sepoltura ecclesiastica a uno sconosciuto”. Come escludere che si tratti del corpo di Secondo Torchio ritrovato tra le vigne? Il fatto che la registrazione, malgrado sia passato più di un mese e ci siano state nel frattempo non poche sepolture, venga effettuata immediatamente dopo quella delle vittime inumate dopo il massacro, lascia intendere che il primo a formulare quest’ipotesi sia stato proprio il sacerdote.
Nessuna comunicazione del ritrovamento di questo cadavere fu data alle autorità italiane; probabilmente per non appesantire il, già pesante, contenzioso che le trattative diplomatiche avevano iniziato ad affrontare.

Con ogni probabilità, dunque, le vittime ammontano a dieci. Passiamo rapidamente adesso al problema della loro identificazione. Le testimonianze raccolte in Consolato permettono di identificare cinque dei sette fotografati. Si tratta di Carlo Tasso, 58 anni, di Montalero, oggi frazione di Cerrina (Alessandria); Bartolomeo Calori, 26 anni, di Torino; Giuseppe Merlo, 29 anni di S. Biagio, frazione di Centallo, (Cuneo); Lorenzo Rolando, 31 anni di Altare (Savona); Paolo Zanetti, 29 anni, di Nese, oggi frazione di Alzano Lombardo (Bergamo).3 Alcuni cadaveri non vengono riconosciuti, ma la cosa non è così semplice, infatti le ricerche e le indagini continuano in Italia. I familiari di Giovanni Bonetto, trentunenne di Frassino (Cuneo) emigrato assieme al fratello a Marsiglia da otto anni, fanno in modo che la foto sia fatta pervenire al sindaco del paese che riconosce Giovanni così come lo riconoscono i familiari e vari conoscenti. La Commissione per le indennità è diffidente, ma anche il medico legale incaricato dal questore di Roma riconosce Giovanni sulla base della presenza di tracce di una ferita che egli aveva subìto da adolescente e della quale avevano riferito i familiari. La pratica si incaglia tra i meandri della burocrazia e i familiari di Giovanni Bonetto non riceveranno alcun risarcimento. Se si pensa che di Giovanni a Frassino (né a Marsiglia per quanto si sappia), dopo l’eccidio non si registra alcuna traccia, c’è da pensare che lo Stato abbia mostrato nel suo caso, come in quello di migliaia di altri emigrati, un volto non propriamente umano.

Dopo l’eccidio, circolava la voce che dei cadaveri di italiani potessero trovarsi nelle campagne. Il console Durando richiese alle autorità francesi un’accurata ricerca che non diede alcun risultato. Dalle carte della Commissione per le indennità della quale tutti in Italia erano a conoscenza non emerge alcuna richiesta di indennizzo per decesso a persone diverse da quelle summenzionate.
Le vittime del massacro fino a prova contraria, naturalmente sono quindi dieci: sei piemontesi, un lombardo, un toscano, un ligure e una rimasta non identificata. Non è improbabile che si continui a parlare di “numero imprecisato”, di “50 morti come sostiene il Times”, di corpi “sepolti dalle (inesistenti) sabbie mobili” o “trascinati dalla corrente (uguale praticamente a zero) dei canali”. Ben altro, però come abbiamo visto, è quanto emerge dai documenti che poco spazio lasciano all’immaginazione.

1.   Cfr. Enzo Barnabà, “Aigues-Mortes, una tragedia dell’immigrazione italiana in Francia”, Torino e “Le sang des marais”, Marsiglia che, aggiornati, sono oggi diventati “Morte agli italiani!”, Infinito edizioni, Formigine, 2008 e “Mort aux Italiens!”, Éditalie, Toulouse, 2012.
2.   Cfr. Commissione delle indennità ai danneggiati di Aigues-Mortes, seduta del 13 marzo 1894, Archivio MAE, serie Z, B. 130.

3.   Cfr. Enzo Barnabà, “Mort aux Italiens!”, op. cit. p. 112. Diversamente da quanto scrive Gérard Noiriel in “Il Massacro degli italiani”, Tropea, Milano, 2010, p. 209, Mariano Ferrini di Morrona, frazione di Terricciola (Pisa) non è da annoverare tra le vittime: riceve dalla Commissione la somma di 750 lire a causa delle ferite riportate e inoltre nel 1933 era ancora in vita poiché trasferiva il proprio domicilio da Terricciola a Livorno (Anagrafe di Terricciola). 

giovedì 6 agosto 2015

#Hiroshima, settanta anni fa

Ogni 6 agosto si rende omaggio alle vittime dell'attacco nucleare statunitense contro la città di Hiroshima. Quest'anno si ricorda quella mostruosità nel settantesimo anniversario.
Quel giorno del 1945, alle otto, sedici minuti e otto secondi del mattino ora locale, "Little Boy", la prima bomba atomica mai utilizzata in un conflitto militare, venne fatta esplodere a 576 metri d'altezza sopra la città con una potenza pari a circa 12.500 tonnellate di trinitrotuluene o TNT. I morti immediati furono oltre sessantamila (le statistiche dicono 60.175), che salirono a circa centomila negli anni successivi in conseguenza delle radiazioni. Gli sfollati furono circa 180.000. Nonostante i settant'anni passati, ancora oggi decine di migliaia di persone sono colpite dagli effetti del fall-out radioattivo. Queste persone sono chiamate "hibakusha".
Tre giorni dopo, 9 agosto, una seconda bomba atomica, chiamata "Fat Man", sarà sganciata alle undici del mattino ora locale da un aereo da guerra statunitense su Nagasaki. Questo secondo ordigno fu fatto esplodere a 469 metri d'altezza sulla zona industriale di Nagasaki e provocò la morte di almeno quarantamila dei circa 240.000 residenti, più un numero imprecisato ma enorme di altri decessi negli anni a seguire a causa del fall-out nucleare.

Forse è superfluo augurarsi che non accada più, per quanto periodicamente l'arroganza umana porti a temere che nuove Hiroshima possano ripetersi. Bene restare assorti almeno qualche attimo, pensando che sono passati solo settant'anni e che i nostri nonni c'erano, i nostri genitori forse, facendo del nostro meglio per restare umani. Almeno questo.

#Monnezza, metafora dell'Italia

Pecché qua, volente o nolente, tutto quello che si fa, deve passare per il Nord. Sempre loro decidono e po’ dicono che siamo stati noi, i pezzenti, i mariuoli, ‘e fetient’, avete capito? Loro fanno ‘e ‘mbruogl’ e po’ dicono che siamo stati noi!”.
Napoli, Italia, ma potremmo dire anche Calabria, Sicilia, Roma…
Una città, un Paese assediati dalla malavita e dalla spazzatura. Monnezza – ma anche tanti rifiuti tossici – che da ogni parte d’Italia, talvolta d’Europa, la malavita trasporta, gestisce, interra, con gravi connivenze, in luoghi meravigliosi trasformati in insalubri pattumiere. In cui vive tanta gente, bambini inclusi.
In Monnezza Francesco De Filippo racconta la sua città – e l’intera Italia – mentre sprofonda nei rifiuti, respira diossina, si ammala. E spiega quali sono i meccanismi, drammatici e criminali, che permettono che questo accada ogni giorno.
“Questo libro è "una divertentissima e amara metafora sulla vicenda della monnezza che da fenomeno reale si trasforma addirittura in una metafisica della condizione umana". (Andrea Camilleri)

mercoledì 5 agosto 2015

Mbeng, la #trappola #Europa

Oltre duemila migranti sono morti quest'anno nel Mediterraneo mentre cercavano di raggiungere le coste europee. A diffondere la drammatica cifra è l'Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni. Nello stesso periodo dello scorso anno sono morte 1.607 persone, mentre, in tutto l’anno passato, sono perite 3.279 persone. La maggior parte dei migranti sono morti mentre cercavano di attraversare il Canale di Sicilia, lungo la rotta del Mediterraneo centrale che collega la Libia all'Italia. "È inaccettabile che nel 21° secolo la gente che fugge dai conflitti, dalle persecuzioni, dalla miseria e dal degrado della terra debba sopportare queste terribili esperienze nei loro Paesi, per non parlare durante il viaggio, per poi morire alle soglie dell'Europa", ha commentato il direttore generale dell'Oim, William Lacy Swing.

Clariste è una giovane donna, africana, calciatrice: sogna Mbeng, l’Europa. Nell’intenso La trappola L'odissea dell’emigrazione, il respingimento, la rinascita ripercorre un viaggio che è una vita – settemila chilometri in otto anni. Un percorso lungo e tortuoso nel tempo e nello spazio, aggrappata al football per avvicinare l’Europa. La storia di un inganno, di un sogno – la fortezza Mbeng – che è illusione. E la narrazione di una rinascita, ritornando all'Africa.

#MeseDellaMemoria per#Srebrenica, i saluti finali

Abbiamo compiuto insieme un bel viaggio lungo un mese. Grazie a chi ha inviato un suo testo, a chi ha letto, a chi ha rilanciato, a chi ha riflettuto.
La pagina del genocidio di Srebrenica rimane aperta, come resta aperta la pagina delle violenze commesse nella stessa area ai danni dei civili serbo-bosniaci tra il 1992 e il 1993. Due piani giuridici diversi, ma comunque due pagine della vergogna. Pagine tragiche per le quali ben pochi hanno pagato e forse nessuno è destinato a farlo.
L’impunità ha vinto a Srebrenica e dintorni, almeno fino a oggi. E questo dovrebbe preoccupare e inquietare tutti, indipendentemente dal tifo di parte, che è e rimane qualcosa di stucchevole e, a tratti, abominevole.
Nella zona di Srebrenica giacciono ancora circa la metà dei quasi 8.000 desaparecidos bosniaco-erzegovesi; e vive una parte dei circa 16.000 criminali che nel conflitto del 1992-1995 s’è sporcata le mani di sangue e non ha mai pagato neppure con un secondo di galera.
Bastano questi due dati a ricordarci il fallimento della giustizia, sia bosniaca che internazionale, e la caducità di certe frasi sussurrate al vento, come sempre: “Mai più”.
Per far sì che non accada mai più veramente, bisognerebbe perseguire i colpevoli e lasciare scolpito finalmente nella pietra il principio per il quale non si fanno sconti, e chi commette atrocità deve pagare. Ma così non è e non sarà, e tra un anno ci ritroveremo a dire le stesse cose di sempre, mentre i 16.000 di cui sopra si saranno goduti altri dodici mesi di impunità.
Il nostro messaggio, per il secondo anno consecutivo, attraverso questa iniziativa, è stato semplice e netto: Srebrenica non va ricordata solo l’11 luglio, ma va ricordata sempre. E questo vale anche per mille altre tragedie dell’umanità.
Grazie a chi ha voluto partecipare e gettare un sassolino nello stagno. Peccato per chi, adducendo le scuse più fantasiose – “Ora non ho tempo”, “Magari la prossima volta”, “Sto partendo, ma l’anno prossimo di sicuro…”, “Te lo mando, come no…”, eccetera – non ha trovato dieci minuti per scrivere un pensiero e magari durante tutto l’anno gioca a fare il paladino dei diritti umani.
La strada è tracciata e si va avanti. Con chi ne ha voglia e senza chi si riempie la bocca di slogan, salvo poi farsi semplicemente gli affari suoi.
I chilometri e gli anni non possono rimuovere quel che è accaduto: Srebrenica è là a ricordarcelo. Si tratta solo di voler continuare a essere umani e mettercela davvero tutta perché non si smarrisca la strada verso la giustizia e perché, davvero, non accada mai più.


Luca Leone

martedì 4 agosto 2015

Aigues-Mortes: il lavoro nelle saline raccontato da un operaio - il libro di Enzo Barnabà

Aigues-Mortes è un piccolo comune della Francia del sud circondato dagli stagni della Camargue e da ampi territori paludosi. Dalle paludi si estrae il sale, il prezioso oro bianco, che rappresenta la vera ricchezza del paese. Il lavoro nelle saline è durissimo, pagato con pochi franchi al giorno e non mancano le rivalità tra gli operai francesi e gli stagionali italiani.
Un clima d’odio crescente portò, il 17 agosto del 1893, una folla inferocita – aizzata ad arte – a volgersi contro i lavoratori italiani in feroci scontri in cui dieci connazionali persero la vita. Un episodio a lungo dimenticato, il massacro di Aigues-Mortes, su cui fa luce il lavoro accurato di Enzo Barnabà in Aigues-Mortes. Il massacro degli Italiani, appena uscito in libreria.
Qui di seguito pubblichiamo la testimonianza di Salvatore Gatti, un operaio nelle saline di Aigues-Mortes, testimone delle condizioni di lavoro e di vita all’epoca dei fatti.
“Anzitutto è bene ch’ella sappia – ci disse – che alla lavora­zione ordinaria del sale la Compagnia di Aigues-Mortes impiega soltanto da 50 a 60 vecchi operai francesi, quasi tutti del paese, i quali hanno impiego permanente. Costoro sono conosciuti nel paludoso paese della Camargue col nome di sali­niers. Soltanto all’epoca del raccolto del sale vengono arruolati da Aigues-Mortes molte centinaia d’operai per l’accumulazione in mucchi del sale, e per il trasporto di esso – ridotto a matto­nelle dai saliniers – fuori delle saline.
Il lavoro del raccolto comincia generalmente verso il 16 di agosto e dura fino ai primi giorni del settembre. Ed è in quest’epoca appunto che squadre di lavoratori italiani si reca­no in cerca di lavoro ad Aigues-Mortes. La stagione delle saline – ci narrava il Gatti – rappresenta per noi un guadagno netto, certo di 180 o 200 lire, cioè quanto ci occorre per vestirci o calzarci un po’ pulitamente durante tutto il resto dell’annata. Da ciò lo accorrere colà di tanta gente. Il lavoro degli operai straordinari alle saline si divide in due distinti periodi. Il primo, d’agglomeramento del sale, dura da cinque a sei giorni, e in questo frattempo tutti indistintamente gli operai sono, da molti anni, pagati in ragione di 5 franchi a te­sta. Le dimostri questo come sia ingiusto il far credere che alla nostra concorrenza sia dovuto l’odio dei francesi contro di noi.
La giornata di lavoro è di undici ore per tutti: cioè dalle sei alle sei con un’ora intermedia di riposo. Gli operai sono divisi per squadre distinte per nazionalità. La compagnia nell’ac­cettare lavoratori dà la preferenza a quelli che già conosce perché usi a fare la stagione del raccolto alle saline. La mag­gioranza degli italiani che accorrono al faticosissimo lavoro è composta da elementi piemontesi, toscani e parmigiani.
Ogni squadra o bricola è posta sotto la direzione di un capo il quale pensa, mediante una ritenuta di fr. 1,60 al giorno, al vitto de’ suoi uomini ai quali fa onestamente pagare 30 centesimi al litro del vino ch’egli compera a 17 centesimi!!! L’alloggio lo provvede la Società delle saline in certe barac­che di legno su cui vien teso uno strato di paglia il quale, con quanta pulizia e igiene non saprei dire, deve durare per tutto il tempo della stagione. I capi di bricola talora poi dopo aver preso agli operai il danaro per il vitto e il vino, se ne filano in­salutati ospiti creando diffidenze nei provveditori del paese che estendono poi l’odio loro su tutti quanti i lavoratori.
Finita l’accumulazione del sale, i salinieri fanno col sale stesso delle mattonelle che poi i lavoranti provvisori devono portare fuori dalle saline, in carrette cariche da 100 a 105 chilogrammi di merce, a mezzo di stretti sentieri ripidi fino a tre o quattrocento metri di distanza. Questa seconda parte del lavoro, detta di roulage non è più pagata a giornata ma a cottimo con tariffa unica. Un forte operaio può in questo lavoro guadagnare una media di dieci franchi al giorno. Nel lavoro di roulage l’operaio francese in generale non resiste. Così una squadra di francesi conta il primo giorno di lavoro 100 uomini, al secondo non ne ha più che 50 e va così sempre diminuendo finché sul campo non rimangono che i resistenti, forti, pazienti, operai italiani.
Va di pari passo col lavoro di roulage quello detto della co­struzione delle gamelle o piramidi di mat­tonelle di sale alte circa metri 7,26 che poi vien misurata a metri cubi per stabilire il guadagno fatto giornalmente dai singoli operai.
Quest’anno fra gamellage e roulage erano occupati da 600 italiani. I francesi quasi uguali per numero il primo giorno an­darono man mano scemando. Da ciò, da questa loro notoria impotenza e non già dalla concorrenza del prezzo nella mano d’opera, il loro risentimento, l’odio contro di noi.
Ancora un’osservazione: il lavoro di roulage dura 12 ore, con un’alternativa di due ore di lavoro e una di riposo. La giornata era divisa così causa l’enorme fatica che viene da tale lavoro.

[testimonianza di Salvatore Gatti, di Casteggio (Pavia) al Secolo XIX, 22-23 agosto 1893]”.

Michela Mosconi in #Srebrenica #MeseDellaMemoria

Srebrenica, come è potuto succedere

Mi è tremendamente difficile mettere insieme qualche pensiero su Srebrenica.
“Come è potuto succedere” è la domanda, martellante, che mi pongo quotidianamente da quando ho iniziato a interessarmi di Bosnia Erzegovina e, soprattutto, a conoscerla meglio grazie all'incontro con le persone, ai loro volti, ai loro occhi. Alle letture, intense, profonde che mi hanno aiutato a farmi un mio pensiero, a formarmi una coscienza di quanto successo.
“Strebrenica, i giorni della vergogna” e “Srebrenica la giustizia negata” sono testi che farei leggere nelle scuole per svegliare un bel po' di coscienze tra alunni e insegnanti. Quando li ho letti confesso di essere stata male, un male fisico, come se una mano improvvisamente fosse uscita dal libro e avesse iniziato a colpirmi, forte, nello stomaco.
Un genocidio nel cuore della democraticissima Europa. Un popolo lasciato alla mercé dei propri assassini accecati dall'odio più barbaro verso il prossimo. Una pulizia etnica testimoniata, accertata, sotto gli occhi di tutti tranne di chi non vuole vedere.
“Come è potuto succedere”.
A vent’anni dal fatto, sembra che la storia abbia insegnato poco. Oltre il danno anche la beffa, per semplificare un po'. Non solo le morti di civili inermi, abbandonati da quella comunità internazionale che aveva il dovere e l'obbligo di difenderli, ma anche una giustizia che non sta facendo il suo corso. Penso alle madri, alle donne di Srebrenica costrette a vedere i carnefici dei loro cari liberi e impuniti. L'incontro con loro è pressoché quotidiano. Come è possibile elaborare un lutto, uscire da un dolore lancinante se quando vai a fare la spesa incontri chi ha ucciso tuo marito? O quando, recandoti in un ufficio pubblico, a rilasciarti il certificato di cui avevi bisogno, è il criminale che ha fatto fuori tuo figlio? Perché nessuno ne parla? Perché la giustizia non sta andando avanti? Non hanno già sofferto abbastanza queste donne? Quale tassello manca al grande puzzle di Srebrenica perché i criminali vengano finalmente assicurati alla giustizia?
E allora parliamo di Srebrenica. Non solo ogni maledetto 11 luglio di ogni anno. Ricordiamola ogni 27 gennaio quando siamo tutti bravi a scrivere nelle nostre coloratissime e sorridenti bacheche di Facebook “Per non dimenticare”, “Mai più “, ad accendere 'ceri' virtuali, o a mettere fiocchi al posto dell'immagine del profilo. Ricordiamola ogni giorno, di ogni anno, e per sempre. Ricordare quello che è accaduto non è importante a fini solidaristici o di autocompiacimento ma significa fare della memoria un qualcosa di più possibile attivo e partecipato. Dobbiamo essere cittadini consapevoli e sapere perché scriviamo “Per non dimenticare”. Il pericolo che non succeda più non è né scontato né tanto meno così lontano dall'avverarsi. Io credo in un futuro di speranza per la Bosnia Erzegovina. Ci devo credere, per forza. Questo ho letto negli occhi delle tante persone di buona volontà che ho conosciuto in Bosnia, persone che quotidianamente si impegnano per abbattere quei muri che l'odio ultranazionalista ha innalzato proprio nel Paese dei ponti.



Michela Mosconi

lunedì 3 agosto 2015

StopOpg chiede al Governo di commissariare le Regioni inadempienti

"Sono passati 4 mesi dal 31 marzo 2015 e gli ospedali psichiatrici giudiziari (opg) non sono ancora chiusi. Più di trecento persone sono internate nei 5 opg superstiti: Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia; e altri 240 sono gli internati nell’ex opg di Castiglione delle Stiviere, che ha solo cambiato “targa” diventando Rems." E' quanto denuncia StopOpg in una nota al Governo.
"Alle dichiarazioni del sottosegretario De Fiilippo che, nei giorni scorsi in Parlamento, annunciava il commissariamento delle regioni inadempienti non sono seguiti i fatti. Il commissariamento non è più rinviabile e riguarda le regioni che non hanno ancora accolto i propri pazienti, costringendoli così a restare in opg.
Ma il commissariamento deve agire per la completa attuazione della Legge 81/2014, che non si limita a far chiudere gli Opg. Tanto più dopo la sentenza della Corte Costituzionale di questi giorni che, respingendo il ricorso del Tribunale di sorveglianza di Messina, ha confermato la piena legittimità della legge 81, con motivazioni che ne sostengono lo spirito innovatore. La nuova legge infatti privilegia misure alternative anche alla detenzione nelle Rems (le strutture regionali di detenzione che stanno sostituendo gli opg invece di diventare residuali). Il commissario - conclude StopOpg - può dare impulso e sostegno a Regioni e Asl che, collaborando con la Magistratura, devono costruire l’alternativa all’internamento delle persone in opg e nelle Rems: con progetti di cura e riabilitazione individuale, potenziando i servizi territoriali di salute mentale. Come per la chiusura dei manicomi la vera sfida è costruire nelle comunità l’alternativa all’esclusione sociale."
Segnaliamo sul tema degli opg e delle istituzioni totali in Italia MALA DIES di Angelo Lallo.

Luca Cortesi per #Srebrenica #MeseDellaMemoria

Ricordare Srebrenica

Ricordare Srebrenica non dev'essere un facile slogan retorico accanto alle parole “Mai più”. Ricordare ciò che successe vent'anni fa è prima di tutto una richiesta, finora spesso inascoltata, di giustizia: per le 10.701 vittime, le mogli, le madri, le sorelle che sono tornate a Srebrenica e che ogni giorno devono fare i conti col passato e il presente.
Infine, ricordare Srebrenica è un monito per l'Europa, spesso incline a dimenticare o a fingere di non vedere ciò che avviene entro i proprio confini. 

Luca Cortesi
Amnesty International
Responsabile Circ. Emilia-Romagna