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venerdì 31 luglio 2015

"Declinazione genocidio", Luca Leone in #Srebrenica #MeseDellaMemoria

Quando leggiamo parole come “eccidio”, “strage”, “mattanza”, “massacro”… in riferimento a quanto avvenuto a Srebrenica, ci troviamo di fronte o a parole sparpagliate a caso da qualche gior­nalista superficiale oppure a una scelta deliberata per ridurre ad arte la gravità, la magnitudo, l’impatto, il significato di un evento che nella storia europea era avvenuto, per l’ultima volta, con la Shoah degli ebrei e con il genocidio dei rom nei campi di stermi­nio nazisti. Altri popoli che a certo mondo estremistico non sono, guarda caso, mai andati molto a genio. E temo che, nella testa di certe persone, musulmani bosniaci, ebrei e rom siano accomunati da un identico disprezzo per la considerazione che si ha di loro. È una vergogna.
Per capire come stanno le cose realmente, è sufficiente prendere in mano un comune dizionario dei sinonimi e dei contrari. Io sto usando uno Zanichelli. Sinonimi di “eccidio” sono sterminio, stra­ge, ecatombe, macello, massacro, carneficina, carnaio, scempio, uc­cisione, falcidia. Di “mattanza” sono massacro, assassinio, stermi­nio. Per “massacro” abbiamo eccidio, strage, carneficina, sterminio, uccisione, scempio, macello, carnaio, ecatombe. Solo per “strage” troviamo sinonimi quali carneficina, massacro, sterminio, macello, scempio, eccidio, ecatombe, carnaio, falcidia, decimazione, ucci­sione di massa, genocidio. Se però andiamo a vedere il significato di “strage” su un vocabolario, questo viene comunemente indica­to come “uccisione di una grande quantità di persone o di animali” (Corriere della Sera), o “uccisione violenta di molte persone o animali insieme” (Garzanti Hoepli). Quindi, di fatto, per quanto comu­nemente usato come sinonimo, “strage” non fa direttamente rife­rimento alla Convenzione del ‘48 e il suo uso non è corretto né in riferimento alla Shoah né in riferimento al genocidio di Srebrenica né in riferimento al genocidio rwandese della primavera del 1994. Credo che però l’uso di sinonimi meno d’impatto del termine “ge­nocidio” abbia la finalità di ridurre, di sminuire la gravità di quanto avvenuto a Srebrenica così come nei campi di sterminio nazisti.
Varrà forse la pena ricordare che la parola “genocidio” è stata co­niata appositamente a metà degli anni Quaranta del Novecento dall’ebreo polacco sopravvissuto Raphael Lemkin con lo scopo di provare a descrivere in modo adeguato le politiche naziste di ster­minio sistematico degli ebrei europei. Il termine nasce dalla sintesi del prefisso geno-, dal greco razza tribù, con il suffisso -cidio, dal latino uccidere. Lemkin, come scrisse, aveva in mente “l’insieme di azioni progettate e coordinate per la distruzione degli aspetti essenziali della vita di determinati gruppi etnici, allo scopo di annientare i grup­pi stessi”. I suoi sforzi vennero poi premiati con l’introduzione della parola “genocidio” nella Convenzione del 1948 e nel vocabolario mondiale comune. Un genocidio, dunque, non è “semplicemente” un strage, ma è l’annientamento totale di uno o più gruppi. Nello specifico di Srebrenica, del gruppo nazionale bosniaco di radice e cultura musulmana, ovvero i successori di coloro che, convertiti­si dopo l’anno mille dal cristianesimo al bogomilismo, lasciarono nella seconda metà del Quattrocento, dopo secoli di persecuzioni, questo credo eretico dualista per abbracciare l’Islam, che poi diver­rà, nei secoli, l’Islam moderato bosniaco. Punto.
Se c’è qualcuno che vuole parteggiare per persone che si sono macchiate di crimini che richiamano per gravità quelli perpetrati da nazismo, con il beneplacito di Paesi come l’Italia, questo fa pau­ra ma non deve intimidirci. La via maestra è quella della verità. E, documenti alla mano, siamo noi quelli che la stanno dimostrando e la stanno difendendo, non i negazionisti e i revisionisti, che sanno solo esprimersi attraverso slogan e teorie complottistiche da fumet­to di serie B degli anni Cinquanta.

Luca Leone

giovedì 30 luglio 2015

"Una sera a teatro", Marco Cortesi #MeseDellaMemoria per #Srebrenica

Una sera a teatro: un giovane spettatore tiene in mano il programma di sala del nostro spettacolo sulla guerra nella ex-Jugoslavia. Nel programma si dice che racconteremo la storia di Srebrenica. Sono in platea per salutare alcuni amici prima dell'inizio e sento il ragazzo in questione tentare goffamente di leggere quello strano nome di città in una lingua che non conosce. Il suo compagno di posto ride e dice che a lui la parola "Srebrenica" ricorda il nome di una marca di vodka. «L'avevi mai sentita prima questa cavolo di parola?». «Mai» risponde l'altro, alzando le spalle per poi tornare ad armeggiare con un grosso smartphone. Io continuo ad ascoltarli allibito.

«Hai mai sentito parlare di Srebrenica? Hai mai sentito parlare del più grave genocidio dalla fine della Seconda Guerra Mondiale?»
«Mai».

Questo 11 luglio cambiamo le cose. RICORDIAMO QUELLO CHE È STATO. RICORDIAMO SREBRENICA.

Marco Cortesi

mercoledì 29 luglio 2015

“Più ti picchio, più ti amo”, il paradosso dell’amore

Benedetta, è una giovane donna, bellissima moglie e mamma di un bimbo dolcissimo. Sempre curata ed elegante nel vestirsi. Rende felice suo marito, Luca, e si prende cura del piccolo Mattia. Un giorno, però, tutto cambia. Non esce più di casa, fuma una sigaretta dietro l’altra, non si vuole più bene. Trascura Mattia trascinandolo con sé in lunghe notti al freddo, spiando di nascosto il marito, oppure passa tutta la giornata immobile sul divano, inerte, piangendo.
Paola è un’assistente sociale. Un giorno arriva nel suo ufficio una segnalazione che non può ignorare e, nella notte, riceve questo messaggio: Tieniti pronta, vado a prendere il piccolo…”.

Mi chiamo Beba, di Palma Lavecchia, capitano dei Carabinieri, è la storia di una donna, Benedetta, di violenze, di famiglie a pezzi e di figli che non vivono la loro età dell’innocenza. Ma se i media, nella realtà, ci raccontano sempre la stessa vicenda, con un triste epilogo che sfocia nella cronaca nera, in questo romanzo possiamo sperare in un lieto fine e dare forza e fiducia alle donne dicendo loro che l’amore per i figli, e per se stesse, possono salvare la vita e dare la possibilità di ricominciare. Con un nuovo spirito, e un nuovo nome. Beba.


“Un terribile proverbio ispanoamericano recita: más te pego, más te quiero, ossia più ti picchio, più ti amo. Una frase paradossale che rivela un inconscio fantasma di violenza all’interno della coppia, basata sull’umiliazione”. (Alessandro Meluzzi)

Nadia Ravioli per #Srebrenica #MeseDellaMemoria

Vent’anni anni dopo… Srebrenica

Sono andata per la prima volta a Srebrenica nel maggio del 2013, con un gruppo meraviglioso di persone.
Il mio viaggio per andare “oltre”, perché in alcuni casi, non bastano i libri, i documentari, i racconti di persone che ci sono state. Io sono convinta che in alcuni luoghi, si ha il “dovere morale” di andarci.
Dopo aver visitato Sarajevo e Tuzla ci siamo diretti proprio lì, in questo paesino separato dalla Serbia dal corso della meravigliosa Drina. Arrivati a questa “famosa” enclave che tanto interessava i serbi, ho visto un paese fantasma, poca gente per strada, dove in troppi non hanno lavoro. Non siamo scesi dall’autobus, abbiamo fatto solo un giro del paese passando vicino al campo da basket dove sono stati trucidati i bambini di una scuola durante l’intervallo. Poi ci siamo diretti al memoriale di Potočari e solo allora, in quel posto, ti rendi ben conto di quello che è successo, quelle colonnine bianche, sterminate per una interminabile distanza, ti fanno riflettere. Rifletti su quanto sia stato assurdo che queste persone spinte dall’odio – o per meglio dire dalla sete di potere di altri – si siamo fatti soggiogare così tanto da uccidersi tra di loro. Un piano ben macchinato, perché tanto a morire erano gli altri, uccisi, secondo la logica comune dall’odio religioso, quando la religione non c’entrava assolutamente nulla.
Ogni volta che torno in Bosnia sistemo meglio un piccolo tassello, perché sono troppi i grovigli che hanno alimentato questo odio assurdo verso l’altro, in un Paese che era l’eccellenza della tolleranza e della civiltà. Ora resta solamente desolazione, disperazione, lutti che non possono essere elaborati, perché non si sono ancora ritrovati i corpi di tutti i bosniaci musulmani uccisi e seppelliti nelle fosse comuni.
Come può ripartire un Paese dove non si è fatta giustizia? Credo che la giustizia sia una buona base di partenza, anche per un Paese i cui governanti stanno svendendo il meglio a noi, i Paesi del cosiddetto “Occidente”, per una manciata di monete, lasciando ancora di più le persone nella miseria. Dove la corruzione è a livelli inimmaginabili, ma noi italiani lo possiamo ben capire, perché abbiamo lo stesso sistema. Ci stiamo avvicinando sempre più a quello della ex-Jugoslavia.
Senza giustizia non si va da nessuna parte e senza memoria non si va avanti ma si retrocede solamente.
Parlare del genocidio vuol dire dare ancora una speranza a queste persone, perché una volta persa la speranza, allora si muore veramente.

Nadia Ravioli

martedì 28 luglio 2015

"Un ombrello rosso", Eldina Pleho ricorda #Srebrenica #MeseDellaMemoria

Quando penso a Srebrenica, mi viene in mente un’estate di circa 25 anni fa. Penso al tempo che ho trascorso con mio nonno, l’odore dei funghi che raccoglievamo insieme. Mio nonno li vendeva e mi aveva comprato un ombrello rosso per andarci a scuola; mi aveva detto che l’estate dopo avremmo lavorato ancora di più e mi avrebbe comprato una borsa rossa. Ma quell’estate non c’è stata.
Dopo più di vent’anni, lontano da casa, in una piccola città toscana, il telefono suonava per me. Mia mamma piangeva. Fa male rispondere al telefono e sentire piangere la propria mamma. “Dida, ascolta – mi diceva – abbiamo trovato il nonno”. Ho sentito la fatica nella sua voce mentre mi parlava. “Come?”, mi chiedevo in stato di shock, senza più parole, con la gola strozzata. “Lo abbiamo trovato… il suo corpo era in tre diverse fosse comuni” – continuava mia mamma mentre io sentivo il suo respiro diventare affannoso. “Ma mancano alcune parti. – faticavo ad ascoltarla – Una gamba, una parte di un braccio…”. La linea è caduta e non sono riuscita più a sentire mia mamma. Volevo solo sdraiarmi e chiudere gli occhi, sdraiarmi soltanto… da una finestra aperta entrava un vento leggero che muoveva una tenda con delle rose disegnate sopra. Sdraiata a occhi chiusi vedevo un ombrello rosso, aveva delle piccole rose bianche e rosse in alto, forse era un altro fiore, no, erano proprio rose… ricordati, forza, devi ricordare… non lo so, non ci riesco. Il viso del nonno, il colore dei suoi occhi, qual era, non me lo ricordo… mio Dio, non riesco a ricordarmelo.
Ho pianto per ore, non riuscivo a ricordare se l’ombrello rosso avesse delle rose o altri fiori disegnati, e quale fosse il colore degli occhi del nonno.
Srebrenica sarà per sempre un dolore insopportabile.


Eldina Pleho

lunedì 27 luglio 2015

Il Sole24Ore recensisce "Srebrenica. La giustizia negata"

La Biblioteca, la rubrica curata da Giorgio Dell'Arti sulle pagine del Sole24Ore, dà spazio al recente libro di Luca Leone e Riccardo Noury su Srebrenica dal titolo SREBRENICA. LA GIUSTIZIA NEGATAPer leggere la recensione potete fare clic qui.Buona lettura!

La finanza internazionale e i conti di casa: “Così banche e finanza ci rovinano la vita”

La vicenda greca, che si sta concludendo con importanti e sostanziali riforme dalle pensioni al regime iva, fa tornare prepotentemente l’attenzione sui temi economici. Tutti noi ormai maneggiamo vocaboli di finanza come spread e deflazione, pur non essendo dei tecnici abbiamo imparato quanto sia stretto il rapporto tra finanza internazionale e conti di casa.
Per scoprire, attraverso la storia, quali misure e cautele adottare per mettere al sicuro i propri risparmi e il proprio futuro segnaliamo in libreria il lavoro di Massimo Guerrieri, Paolo Giovanardi e Antonello Cattani dal titolo Così banche e finanza ci rovinano la vita.
Gli autori sono bancari “pentiti” che da anni lavorano in maniera indipendente a fianco di cittadini e imprenditori e sostengono che molto presto scoppierà una nuova bolla speculativa che tornerà a mettere in una condizione precaria la nostra esistenza, mentre la politica continua a sostenere che, invece, siamo vicini all’uscita dalla crisi. Sapendo di mentire.


“Nascosta dietro alla complessità e all’illeggibilità dei contratti si è spesso celata l’intenzione di pilotare gli investimenti dei cittadini verso prodotti poco chiari, dalla dubbia sicurezza e solidità. Prodotti che poi si sono dimostrati fallimentari, mandando in fumo i risparmi di una vita di molte famiglie. Si aggiunga che questi investimenti ad alto rischio sono stati proposti anche a molte amministrazioni comunali, che si sono poi ritrovate a scaricare le perdite sui cittadini attraverso un aumento delle imposte, con un doppio danno per questi ultimi…”. (Rosario Trefiletti)

"Creme miracolose per lacrime insanabili", Maria Cecilia Castagna in #MeseDellaMemoria per #Srebrenica

Creme miracolose per lacrime insanabili
Ci sono donne che, nella battaglia senza luogo con la nera signora, diventate nonne ordinano ai nipoti di chiamarle solo con il nome. A Srebrenica ci sono donne che darebbero dieci anni di vita per potersi sentire chiamare, almeno una volta: “Non-na, non-na”, da una vocina infantile e squillante.
Se questo fosse possibile significherebbe per queste non-nonne che venti anni fa non si è combattuta una guerra decisa lontano, che ha lacerato le famiglie, e a Srebrenica non si sarebbe consumato l’orrore. Quel brivido che ancora oggi si percepisce tra le strade di una città fantasma e tra le migliaia di lapidi in file ordinate nel memoriale di Potočari. È qui il cuore di queste non-nonne che non si concedono il lusso di piangere davanti a qualcuno e si coricano senza aver spalmato sul viso cosmetici dalle promesse miracolose, pregando solo per il miracolo di trovare in una fossa le amate ossa.


Maria Cecilia Castagna

domenica 26 luglio 2015

#MeseDellaMemoria #Srebrenica: i pensieri della quarta settimana

Raccogliamo i pensieri, i ricordi e le suggestioni dedicati al ventennale del genocidio di Srebrenica che abbiamo pubblicato durante questa settimana.

Un capitolo ancora aperto

Srebrenica venti anni dopo. Che significato ha, in questo specifico caso e momento, parlare di memoria? Sotto certi aspetti, sembra di scorgere alcune analogie con le stragi di casa nostra, ad esempio Piazza Fontana, oppure Ustica, la stazione di Bologna o altre ancora, “maggiori o minori”, di cui non c’è mai stato un vero esito, nel senso dell’accertamento delle responsabilità - tutte le responsabilità - e dell’esatta ricostruzione storica e politica. E quando accade questo, resta sul fondo una “cattiva coscienza”, risulta difficile ricomporre una vera memoria, i ricordi dello strazio che hanno i familiari delle vittime rimangono come frammentati, lutti sospesi o emarginati. In questi ultimi giorni ci sono stati – su Srebrenica - alcuni episodi che non è semplice decifrare: ad esempio, l’arresto di Naser Oric, qualche voce su una possibile sospensione della commemorazione per il ventennale, poi la presa di posizione dell’Onu sul riconoscimento della definizione di genocidio, la conseguente reazione del governo di Belgrado e l’appoggio di Mosca che ha bloccato il tutto. Insomma, sono la dimostrazione, o la conferma, che Srebrenica non è solo un fatto locale, tremendo e da commemorare o da trattare come un fatto “giudiziario” che deve “limitarsi” al pieno accertamento delle responsabilità. Ci pare invece che Srebrenica abbia una valenza più generale, che riguarda ancora l’intera regione balcanica, e che a questo livello sia tuttora motivo di divisione, o quantomeno di “incomprensioni”. Vi si mescolano “altri piani” che travalicano le vicende delle singole persone coinvolte, il cui dolore dovrebbe essere non solo rispettato ma anche meglio compreso, non per esibirlo in funzione di qualcosa ma per partire da lì, per una rielaborazione e una riconciliazione complessa da costruire. È difficile in poche righe affrontare un tema così delicato e che, ci rendiamo conto di non conoscere in un modo ancora adeguato. Personalmente, per noi che allora siamo stati soltanto spettatori, si avverte il bisogno di tornare ad approfondire, conoscere meglio, tentare di comprenderne i nodi, i “meccanismi” che potrebbero ripetersi ancora, anche in luoghi diversi. E anche, prestare più attenzione ai tentativi di ricostruzione e ripresa che pure sono stati fatti in questi anni, importanti ma spesso, forse, lasciati un po’ isolati. Insomma, Srebrenica ci appare come un capitolo ancora molto aperto.


Tullio Bugari e Giacomo Scattolini


Rabbia, indignazione, giustizia e testimonianza

A vent’anni dal genocidio di Srebrenica, mi spiace dirlo, prevale la stanchezza. Sono sfinito da tutto il dolore che ho conosciuto in questo lasso di tempo lunghissimo eppure anche molto breve. Le immagini si susseguono nella mia mente in ordine sparso. Non sono soltanto immagini tristi, certo: ci sono i volti sorridenti di tanti amici; però, quello che manca è un volto, uno solo, veramente sereno, senza più rimpianti, fantasmi, tormenti a segnarne i contorni.

Non andrò a Srebrenica per l’11 luglio, non ho mai creduto negli anniversari. La Bosnia per me è una seconda casa, anzi forse col tempo è diventata la prima: è in Italia che sono in vacanza. Ed è proprio per questo che eviterò l’11 luglio: so, conosco, cerco per quanto possibile di testimoniare. Sempre, ogni 11 luglio e ogni altro giorno dell’anno.

Ma dico tutta la verità: la stanchezza a volte mi sopravanza e mi gioca brutti scherzi. Come arrabbiarmi quando qualcuno in un dibattito, per l’ennesima volta, sbaglia a pronunciare Srebrenica. Come piangere dopo aver rivisto Dule, il titolare del ristorante dove da anni mangiavo la biftek, nel docu-film Souvenir Srebrenica: Dule che era ritornato a Srebrenica dopo la guerra per aprire il suo locale, e che era in cucina anche quando un infarto se lo è portato via. Come pensare di chiudere il libro delle fosse comuni, degli stupri, degli orfani, del disagio e della miseria una volta per tutte: chiudere il libro, non pensarci più, far finta di niente.

Ma non chiuderò nessun libro, continuerò a sentirmi stanco e impotente ma non smetterò di fare la mia parte. Non darò questa soddisfazione ai bastardi di Sarajevo magistralmente raccontati da Luca Leone. Un solo senso mi sento di dare a questo ventennale: che sia un ventennale di rabbia e indignazione. Non di violenza, non di vendetta, ma intriso dalla sete di giustizia: racconteremo, testimonieremo, non dimenticheremo. Mai. Il rischio che non serva a nulla, alla luce di questi vent’anni, è altissimo, ma non importa: continueremo a farlo ugualmente.

Matteo Pagliani


L’incontro con le madri: memoria nella giustizia
Durante la gita-pellegrinaggio attraverso la penisola balcanica, dell’Associazione per l’accoglienza dei migranti “San Martino de Porres” di Pistoia, incontriamo le madri di Srebrenica e di Zepa nel pomeriggio del 21 agosto 2008, una data che rimarrà impressa nella mente di molti dei presenti. L’incontro avviene in un piccolo appartamento della periferia di Sarajevo. Appena entrati, le foto con i volti degli scomparsi, con le bare, con il volto addolorato di Clinton, ci hanno calato immediatamente in una tragedia della storia rimossa daimedia. Il genocidio, realizzato nel luglio 1995 nell’impotenza, ma anche nell’indifferenza e nel silenzio dell’Europa, si materializza ai nostri occhi in un’evidenza lampante che squarcia le coscienze: non possiamo sottrarci alla responsabilità di questa sconfitta dell’umanità: la connessione tra sfera e spazio globale si realizza in modo lacerante. Le parole delle madri, in particolare della presidente Munira Subasic – una donna apparentemente semplice, ma ferma nella sua fiera argomentazione – sono come un grido che chiede, esige giustizia diun genocidio che il mondo non ha voluto vedere. Munira parla, racconta, ragiona, discute, accusa rapida e precisa nella sua lingua bosniaca per noi incomprensibile, ma tradotta, talvolta tra le lacrime, dalla giovane e dolcissima Ana, che più volte è sopraffatta dalla commozione. Munira parla con la durezza e la precisione di un processo verbale contro Karadzic (da pochi giorni scoperto e arrestato), Mladic (ancora nascosto dal governo serbo), le responsabilità dell’Europa e dell’Onu, contro i silenzi del papa; la sua sicurezza è assoluta, come se avesse raggiunto un punto fermo che le asciuga le lacrime e le dà serenità, la Giustizia. Erompe con un grido: “Perché siete qui?” e ci fa improvvisamente protagonisti inconsapevoli in quella stanza, dove sono presenti il dolore e l’orrore del XX secolo. Noi, dopo essere rimasti a lungo in silenzio, possiamo solo ringraziare per la loro testimonianza: lo esprimiamo con le mie sofferte parole: “L’incontro che vi abbiamo chiesto vuole riaffermare che la dignità umana resiste nella memoria, anche e proprio nei luoghi, di cui sono stati vittime i vostri familiari. Siamo consapevoli che ogni incontro, per voi evoca dolore, ma essere qui rappresenta per noi una scelta irrinunciabile di solidarietà nella memoria e nella giustizia. Il valore della vostra testimonianza è infinito proprio perché diventa parte della memoria collettiva grazie al messaggio che quanto è avvenuto qui, non accada più in nessuna parte del mondo. I vostri cari non toneranno a vivere, ma attraverso la giustizia i responsabili del crimine non sfuggiranno al giudizio degli uomini e della storia né potranno uccidere il ricordo di coloro che assassinarono fisicamente. Nei giorni del luglio 1995, forse molti di noi volsero altrove lo sguardo per non vedere quanto di terribile avveniva nella vicina Bosnia: oggi, nel chiedervi perdono dell’indifferenza di allora, vi ringraziamo perché ci avete aiutato a continuare ad essere umani. Grazie, donne di Srebrenica e di Zepa: porteremo con noi il vostro messaggio di giustizia, di rispetto della diversità e di speranza nell’uomo!”. Quindi don Patrizio Guidi legge la commossa poesia composta da lui: “Madri di Srebrenica”. Paola Bellandi, presidente dell’associazione, offre un quadro con il ricamo eseguito da lei con una dedica alle madri. Loro capiscono il nostro disagio e la nostra solidarietà, ci abbracciano. Sarà difficile per molti di noi dimenticarle e continuare ad essere gli stessi di prima.


Mauro Matteucci


Madri di Srebrenica
Potrei  forse osare
chiedere a Voi  madri
d’immergere in quel sangue che fu vostro
il fuggente tempo di una domanda?

Sul vuoto di vita come voragine
da serba ferocia bestiale aperta
supplicante sto.
Ma temo l’imprudenza di viaggiante
curioso sopra le sciagure umane.

Sorregge e mi dà forza il saper della
ricchezza vostra di maternità.
Custode accoglie nell’offeso grembo
fecondata da pace nuova vita e
di popoli l’anima
dalle fosse risorta
perenne memoria offerta al domani
per quelle mamme che seppero forti
l’odio cancellare.

Ma lacera ancora quel lamento antico
che raccolgo nei tempi della storia
e a Srebrenica in quel giorno di morte:
“Un grido è stato udito in Rama,
un pianto e un lamento grande;
Rachele piange i suoi figli
e non vuole essere consolata,
perché non sono più”.

Ma i vostri figli ancor ritorneranno
forti e risorti figli di perdono
dono di Voi mamme
ventre nel futuro
utopia di pace.

                                     
Patrizio Guidi – 21 agosto 2008


La diplomazia e i diritti umani
Diplomazia. È una parola che ho cominciato a conoscere, nel suo vero significato, nei primi anni '90. Ne ho avuto l'occasione durante la militanza in Amnesty International, quando parlavo con diplomatici che mi spiegavano cosa occorreva fare per difendere i diritti umani. Non ci si doveva scontrare apertamente, mettendo in imbarazzo gli interlocutori. Molto meglio scambiare le idee in modo informale, nei corridoi dei palazzi delle organizzazioni internazionali, dove c'era l'occasione di mettere una parola buona per quel o quell'altro prigioniero per motivi di opinione.

Per ottenere risultati, mi spiegavano con la pazienza che ci vuole nei confronti di un ragazzino dalle buone intenzioni ma poco avvezzo alle cose del mondo, bisogna intrattenere buoni rapporti con tutti. Elencare i politici europei - anche italiani - che con Milosevic hanno tenuto buoni rapporti, nel corso degli anni, richiederebbe tempo e spazio. Per ricordare dove ha portato, quella diplomazia, basta un nome: Srebrenica.

Assistere ai massacri come quello avvenuto l'11 luglio 1995 oppure scatenare guerre dalla dubbia efficacia come quella per il Kosovo di quattro anni dopo. Pare che le diplomazie europee non conoscano vie di mezzo. Se a vent'anni di distanza dal genocidio di Srebrenica passasse l'idea che difendere i diritti umani è il modo migliore per prevenire massacri e che difendere i diritti umani significa impegnarsi con coraggio e serietà tutti i giorni, e non nei corridoi dei palazzi abitati dai diplomatici, allora questi decenni non sarebbero passati invano.

Daniele Scaglione

sabato 25 luglio 2015

"La diplomazia e i diritti umani", Daniele Scaglione per #MeseDellaMemoria #Srebrenica

Diplomazia. È una parola che ho cominciato a conoscere, nel suo vero significato, nei primi anni '90. Ne ho avuto l'occasione durante la militanza in Amnesty International, quando parlavo con diplomatici che mi spiegavano cosa occorreva fare per difendere i diritti umani. Non ci si doveva scontrare apertamente, mettendo in imbarazzo gli interlocutori. Molto meglio scambiare le idee in modo informale, nei corridoi dei palazzi delle organizzazioni internazionali, dove c'era l'occasione di mettere una parola buona per quel o quell'altro prigioniero per motivi di opinione.

Per ottenere risultati, mi spiegavano con la pazienza che ci vuole nei confronti di un ragazzino dalle buone intenzioni ma poco avvezzo alle cose del mondo, bisogna intrattenere buoni rapporti con tutti. Elencare i politici europei - anche italiani - che con Milosevic hanno tenuto buoni rapporti, nel corso degli anni, richiederebbe tempo e spazio. Per ricordare dove ha portato, quella diplomazia, basta un nome: Srebrenica.

Assistere ai massacri come quello avvenuto l'11 luglio 1995 oppure scatenare guerre dalla dubbia efficacia come quella per il Kosovo di quattro anni dopo. Pare che le diplomazie europee non conoscano vie di mezzo. Se a vent'anni di distanza dal genocidio di Srebrenica passasse l'idea che difendere i diritti umani è il modo migliore per prevenire massacri e che difendere i diritti umani significa impegnarsi con coraggio e serietà tutti i giorni, e non nei corridoi dei palazzi abitati dai diplomatici, allora questi decenni non sarebbero passati invano.

Daniele Scaglione

giovedì 23 luglio 2015

#Alimentazione #risorsenaturali e #sceltavegan, i suggerimenti di Giuseppe Coco

Quattro torri piene di acqua, sale, caffè e mele sono l’elemento che caratterizza il Padiglione della Svizzera all’interno di Expo 2015. I visitatori salgono con ascensori e, una volta in cima, possono prendere quello che desiderano. Man mano che le torri si svuotano, le piattaforme sui cui poggiano si abbassano, modificando l’aspetto del Padiglione stesso. L’installazione, interattiva con il comportamento dei visitatori, mostra lo stretto legame tra abbondanza e scarsità di risorse alimentari e fa riflettere su quanto il nostro stile di vita incida sul Pianeta.
In Vegan liberi tutti. Mangia e vivi in modo sano e giusto, Coco sottolinea come la fame sia uno dei bisogni primari dell’uomo e scegliere di mangiare in maniera consapevole e non dannosa per gli animali o l’ambiente è un passo importante che richiede maturazione e consapevolezza. La dieta vegan, continua Coco, fa bene alla salute, favorisce la longevità e previene malattie metaboliche e patologie del benessere. Ma non deve essere solo una moda, sposare lo stile vegan rappresenta una scelta etica ed evolutiva oltre che l’unica opzione per far sopravvivere il pianeta, ridurre la disparità sociale ed evitare lo sfruttamento e la morte di esseri senzienti quali sono gli animali. 

"Le madri di Srebrenica", Patrizio Guidi per #MeseDellaMemoria

Madri di Srebrenica
Potrei  forse osare
chiedere a Voi  madri
d’immergere in quel sangue che fu vostro
il fuggente tempo di una domanda?

Sul vuoto di vita come voragine
da serba ferocia bestiale aperta
supplicante sto.
Ma temo l’imprudenza di viaggiante
curioso sopra le sciagure umane.

Sorregge e mi dà forza il saper della
ricchezza vostra di maternità.
Custode accoglie nell’offeso grembo
fecondata da pace nuova vita e
di popoli l’anima
dalle fosse risorta
perenne memoria offerta al domani
per quelle mamme che seppero forti
l’odio cancellare.

Ma lacera ancora quel lamento antico
che raccolgo nei tempi della storia
e a Srebrenica in quel giorno di morte:
“Un grido è stato udito in Rama,
un pianto e un lamento grande;
Rachele piange i suoi figli
e non vuole essere consolata,
perché non sono più”.

Ma i vostri figli ancor ritorneranno
forti e risorti figli di perdono
dono di Voi mamme
ventre nel futuro
utopia di pace.

                                     

Patrizio Guidi – 21 agosto 2008

mercoledì 22 luglio 2015

#Estate #cani #padroni "Non mi piace stare solo"

Estate, giornate più lunghe e più tempo libero. Quale migliore occasione per trascorrere bei momenti con il nostro amico a quattro zampe, sempre disponibile a farci le feste e a giocare con noi? Seguendo i consigli di Michele Caricato in Non mi piace stare solo possiamo condividere con lui giochi, passeggiate ed esercizi di abilità che daranno grande soddisfazione a entrambi, permettendo a noi padroni di riscoprire e ritrovare quel lato giocoso e naturale che fa parte dell’essere umano.
“Non mi piace stare solo è un ottimo manuale che insegna come il rapporto con il completamente altro, con l’animale non umano, mostri la necessità della poesia nella nostra vita”. (Lucilio Santoni)

Mauro Matteucci con "L’incontro con le madri: memoria nella giustizia", #MeseDellaMemoria per #Srebrenica

Durante la gita-pellegrinaggio attraverso la penisola balcanica, dell’Associazione per l’accoglienza dei migranti “San Martino de Porres” di Pistoia, incontriamo le madri di Srebrenica e di Zepa nel pomeriggio del 21 agosto 2008, una data che rimarrà impressa nella mente di molti dei presenti. L’incontro avviene in un piccolo appartamento della periferia di Sarajevo. Appena entrati, le foto con i volti degli scomparsi, con le bare, con il volto addolorato di Clinton, ci hanno calato immediatamente in una tragedia della storia rimossa dai media. Il genocidio, realizzato nel luglio 1995 nell’impotenza, ma anche nell’indifferenza e nel silenzio dell’Europa, si materializza ai nostri occhi in un’evidenza lampante che squarcia le coscienze: non possiamo sottrarci alla responsabilità di questa sconfitta dell’umanità: la connessione tra sfera e spazio globale si realizza in modo lacerante. Le parole delle madri, in particolare della presidente Munira Subasic – una donna apparentemente semplice, ma ferma nella sua fiera argomentazione – sono come un grido che chiede, esige giustizia di un genocidio che il mondo non ha voluto vedere. Munira parla, racconta, ragiona, discute, accusa rapida e precisa nella sua lingua bosniaca per noi incomprensibile, ma tradotta, talvolta tra le lacrime, dalla giovane e dolcissima Ana, che più volte è sopraffatta dalla commozione. Munira parla con la durezza e la precisione di un processo verbale contro Karadzic (da pochi giorni scoperto e arrestato), Mladic (ancora nascosto dal governo serbo), le responsabilità dell’Europa e dell’Onu, contro i silenzi del papa; la sua sicurezza è assoluta, come se avesse raggiunto un punto fermo che le asciuga le lacrime e le dà serenità, la Giustizia. Erompe con un grido: “Perché siete qui?” e ci fa improvvisamente protagonisti inconsapevoli in quella stanza, dove sono presenti il dolore e l’orrore del XX secolo. Noi, dopo essere rimasti a lungo in silenzio, possiamo solo ringraziare per la loro testimonianza: lo esprimiamo con le mie sofferte parole: “L’incontro che vi abbiamo chiesto vuole riaffermare che la dignità umana resiste nella memoria, anche e proprio nei luoghi, di cui sono stati vittime i vostri familiari. Siamo consapevoli che ogni incontro, per voi evoca dolore, ma essere qui rappresenta per noi una scelta irrinunciabile di solidarietà nella memoria e nella giustizia. Il valore della vostra testimonianza è infinito proprio perché diventa parte della memoria collettiva grazie al messaggio che quanto è avvenuto qui, non accada più in nessuna parte del mondo. I vostri cari non toneranno a vivere, ma attraverso la giustizia i responsabili del crimine non sfuggiranno al giudizio degli uomini e della storia né potranno uccidere il ricordo di coloro che assassinarono fisicamente. Nei giorni del luglio 1995, forse molti di noi volsero altrove lo sguardo per non vedere quanto di terribile avveniva nella vicina Bosnia: oggi, nel chiedervi perdono dell’indifferenza di allora, vi ringraziamo perché ci avete aiutato a continuare ad essere umani. Grazie, donne di Srebrenica e di Zepa: porteremo con noi il vostro messaggio di giustizia, di rispetto della diversità e di speranza nell’uomo!”. Quindi don Patrizio Guidi legge la commossa poesia composta da lui: “Madri di Srebrenica”. Paola Bellandi, presidente dell’associazione, offre un quadro con il ricamo eseguito da lei con una dedica alle madri. Loro capiscono il nostro disagio e la nostra solidarietà, ci abbracciano. Sarà difficile per molti di noi dimenticarle e continuare ad essere gli stessi di prima.



Mauro Matteucci

martedì 21 luglio 2015

Matteo Pagliani per #Srebrenica #MeseDellaMemoria/16

Rabbia, indignazione, giustizia e testimonianza

A vent’anni dal genocidio di Srebrenica, mi spiace dirlo, prevale la stanchezza. Sono sfinito da tutto il dolore che ho conosciuto in questo lasso di tempo lunghissimo eppure anche molto breve. Le immagini si susseguono nella mia mente in ordine sparso. Non sono soltanto immagini tristi, certo: ci sono i volti sorridenti di tanti amici; però, quello che manca è un volto, uno solo, veramente sereno, senza più rimpianti, fantasmi, tormenti a segnarne i contorni.
Non andrò a Srebrenica per l’11 luglio, non ho mai creduto negli anniversari. La Bosnia per me è una seconda casa, anzi forse col tempo è diventata la prima: è in Italia che sono in vacanza. Ed è proprio per questo che eviterò l’11 luglio: so, conosco, cerco per quanto possibile di testimoniare. Sempre, ogni 11 luglio e ogni altro giorno dell’anno.
Ma dico tutta la verità: la stanchezza a volte mi sopravanza e mi gioca brutti scherzi. Come arrabbiarmi quando qualcuno in un dibattito, per l’ennesima volta, sbaglia a pronunciare Srebrenica. Come piangere dopo aver rivisto Dule, il titolare del ristorante dove da anni mangiavo la biftek, nel docu-film Souvenir Srebrenica: Dule che era ritornato a Srebrenica dopo la guerra per aprire il suo locale, e che era in cucina anche quando un infarto se lo è portato via. Come pensare di chiudere il libro delle fosse comuni, degli stupri, degli orfani, del disagio e della miseria una volta per tutte: chiudere il libro, non pensarci più, far finta di niente.
Ma non chiuderò nessun libro, continuerò a sentirmi stanco e impotente ma non smetterò di fare la mia parte. Non darò questa soddisfazione ai bastardi di Sarajevo magistralmente raccontati da Luca Leone. Un solo senso mi sento di dare a questo ventennale: che sia un ventennale di rabbia e indignazione. Non di violenza, non di vendetta, ma intriso dalla sete di giustizia: racconteremo, testimonieremo, non dimenticheremo. Mai. Il rischio che non serva a nulla, alla luce di questi vent’anni, è altissimo, ma non importa: continueremo a farlo ugualmente.

Matteo Pagliani

lunedì 20 luglio 2015

Tullio Bugari e Giacomo Scattolini per #Srebrenica in #MeseDellaMemoria

Un capitolo ancora aperto

Srebrenica venti anni dopo. Che significato ha, in questo specifico caso e momento, parlare di memoria? Sotto certi aspetti, sembra di scorgere alcune analogie con le stragi di casa nostra, ad esempio Piazza Fontana, oppure Ustica, la stazione di Bologna o altre ancora, “maggiori o minori”, di cui non c’è mai stato un vero esito, nel senso dell’accertamento delle responsabilità - tutte le responsabilità - e dell’esatta ricostruzione storica e politica. E quando accade questo, resta sul fondo una “cattiva coscienza”, risulta difficile ricomporre una vera memoria, i ricordi dello strazio che hanno i familiari delle vittime rimangono come frammentati, lutti sospesi o emarginati. In questi ultimi giorni ci sono stati – su Srebrenica - alcuni episodi che non è semplice decifrare: ad esempio, l’arresto di Naser Oric, qualche voce su una possibile sospensione della commemorazione per il ventennale, poi la presa di posizione dell’Onu sul riconoscimento della definizione di genocidio, la conseguente reazione del governo di Belgrado e l’appoggio di Mosca che ha bloccato il tutto. Insomma, sono la dimostrazione, o la conferma, che Srebrenica non è solo un fatto locale, tremendo e da commemorare o da trattare come un fatto “giudiziario” che deve “limitarsi” al pieno accertamento delle responsabilità. Ci pare invece che Srebrenica abbia una valenza più generale, che riguarda ancora l’intera regione balcanica, e che a questo livello sia tuttora motivo di divisione, o quantomeno di “incomprensioni”. Vi si mescolano “altri piani” che travalicano le vicende delle singole persone coinvolte, il cui dolore dovrebbe essere non solo rispettato ma anche meglio compreso, non per esibirlo in funzione di qualcosa ma per partire da lì, per una rielaborazione e una riconciliazione complessa da costruire. È difficile in poche righe affrontare un tema così delicato e che, ci rendiamo conto di non conoscere in un modo ancora adeguato. Personalmente, per noi che allora siamo stati soltanto spettatori, si avverte il bisogno di tornare ad approfondire, conoscere meglio, tentare di comprenderne i nodi, i “meccanismi” che potrebbero ripetersi ancora, anche in luoghi diversi. E anche, prestare più attenzione ai tentativi di ricostruzione e ripresa che pure sono stati fatti in questi anni, importanti ma spesso, forse, lasciati un po’ isolati. Insomma, Srebrenica ci appare come un capitolo ancora molto aperto.


Tullio Bugari e Giacomo Scattolini

sabato 18 luglio 2015

Terza settimana di pensieri e ricordi su #Srebrenica

Raccogliamo i pensieri, i ricordi e le suggestioni dedicati al ventennale del genocidio di Srebrenica che abbiamo pubblicato durante questa settimana.
Le responsabilità e la giustizia
Sulla piena responsabilità di Ratko Mladić nel genocidio di Srebrenica non ci sono attenuanti, ma il processo contro l’ex generale potrà fare luce sulla verità e chiarire eventuali corresponsabilità di quella che è e rimarrà per sempre una delle pagine più drammatiche dei fatti criminali nella moderna e democratica Europa. Giustizia per le vittime, i sopravvissuti e ancora, come a Norimberga, perché non si ripeta mai più, never again.

Carla Del Ponte
Magistrato, diplomatico,
ex Procuratore Capo del Tribunale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia

Passano gli anni, rimangono i problemi
Sono passati tanti anni ormai, ma non uno dei problemi della guerra del 1992-1995 è stato risolto. Il potenziale incendiario dell’area è rimasto intatto. Ma il peggio è che non abbiamo risposto a nessuna delle domande scomode sulle nostre responsabilità in quel conflitto nel cortile di casa nostra. Srebrenica è il monumento a questa rimozione interessata. Perché la Nato non è intervenuta? Perché le Nazioni Unite sono scomparse dalla zona di operazioni? A cosa è servito riedificare in pompa magna Srebrenica e ricostruire il ponte di Mostar se i Balcani sono scomparsi dalle agende della politica? Che speranza possiamo promettere a questa gente se non riusciamo a punire i colpevoli? Che democrazia, che sviluppo può rinascere in assenza di giustizia?

Paolo Rumiz

L’incontro delle memorie a Srebrenica
Giunta a Srebrenica, la mia prima sorpresa è stato l’odore di morte. Ho avuto l’impressione di sentire la fossa comune allo stesso modo di quando ne apriamo una in Rwanda. Forse è perché sapevo quanto vi era accaduto. La notte non sono riuscita, senza una ragione, a dormire.
Una situazione strana. Nessun ragazzo gioca nelle strade di Srebrenica nonostante ci sia un tempo splendido.
Nel 1995 sono stati uccisi tutti gli uomini e i ragazzi musulmani dai 12 anni in su. Alcuni sopravvissuti non sono più ritornati. Dovunque ci sono rovine come nel Rwanda proprio dopo il genocidio.
La sofferenza non ha altro colore di pelle che il suo.
La sofferenza non ha altra lingua che la sua.
Quando ho incontrato le madri di Srebrenica, ho visto il loro dolore, ho visto il mio attraverso i loro occhi disperati: noi abbiamo comunicato così! Loro parlano bosniaco e io parlo francese. Abbiamo pianto insieme. Abbiamo condiviso la nostra sofferenza, le nostre ferite e ci siamo subito capite.
Mi pongo domande in modo ancora più forte di quanto me le ponga sul Rwanda. Nel Rwanda esiste un abbozzo di giustizia. Non è tutto perfetto. Ma almeno le forze che hanno pianificato il genocidio non governano più nel Rwanda. Anche se lo Stato è originariamente responsabile del genocidio, ora non è più governato dagli stessi individui che ho visto brandire armi da fuoco e machete, né la stessa ideologia di allora dirige il Paese. Il nuovo governo del Rwanda ha richiesto un tribunale penale internazionale e l’Onu l’ha istituito. Questo tribunale ha almeno il merito di esistere, anche se non mi soddisfa, ma i carnefici non dormono tranquilli là dove si sono sottratti alla giustizia, fuggendo attraverso il mondo. Hanno cambiato talvolta i loro nomi e le loro identità per camuffarsi. C’è però una giustizia da qualche parte, anche se ciò non serve a niente a noi, alle vittime.
A Srebrenica è differente. Dalle testimonianze risulta la prova che il Potere pensava di massacrare i musulmani fino all’ultimo. Ma alcune vittime sono riuscite a fuggire fino a Tuzla. È per questo che io do ragione ai miei antenati che hanno detto: ”Nessuno può sterminare un popolo”. Vi è sempre qualche sopravvissuto (Ntabapfira gushira).
Almeno in Rwanda abbiamo una forza positiva che ha fermato il genocidio, ma questo non è successo a Srebrenica. Ho appreso che alcune vittime che sono sopravvissute hanno trascorso sei mesi nella foresta senza rendersi conto che i massacri erano cessati. Hanno continuato a fuggire affamate e assetate.
Da noi durante il genocidio, anche se i caschi blu dell’Onu non hanno fatto niente per arrestare i massacri, non ci hanno fatto del male prima dell’arrivo della missione umanitaria francese. A Srebrenica è stato ancora differente. I caschi blu avrebbero violentato le donne che si erano rifugiate da loro. Per me, è fuggire la morte verso la morte! I caschi blu avrebbero dato le armi al potere sterminatore!
Non capisco perché nessuno vuole ricostruire Srebrenica.
Non capisco perché nessuno fa giustizia nei confronti di un crimine di genocidio riconosciuto dalla giustizia internazionale. Dopo un simile crimine le potenze non vogliono che la giustizia sia fatta, ma quando si verificano gli tsunami tutti si precipitano perché questi non pongono il problema delle responsabilità umane.
Quale disperazione per le vittime vedere che il potere, che ha pianificato ed eseguito i massacri dei musulmani di Srebrenica, è lo stesso che governa ancora e che dovrebbe rendere loro giustizia!
Impensabile, inimmaginabile, disgustoso!
E ogni pretesto è buono per colpire l’Afghanistan, l’Iraq, presto si colpirà l’Iran e, ancora come al solito, i piccoli pagheranno per i grandi.

Yolande Mukagasana
sopravvissuta al genocidio in Rwanda

La lezione della Storia
Per una strana coincidenza della storia il 2015 vede la commemorazione del centenario del genocidio armeno e del ventennale di quello di Srebrenica. Per entrambi i casi la lezione della storia dovrebbe essere accettata e condivisa ma purtroppo in entrambi i casi le autorità dei Paesi coinvolti negano l'evidenza e le sentenze delle corti internazionali giocando pericolosamente con i fatti. È singolare constatare le analogie della reazione del primo ministro turco Davoutoglu nei confronti dello sterminio armeno e di quello serbo Vucic nei confronti dello sterminio della cittadina bosniaca. Entrambi hanno espresso solidarietà, pietà e rispetto per le vittime ma entrambi hanno respinto con forza ogni accusa di genocidio. Eppure in entrambi i casi gli Stati sul banco degli imputati, l'impero ottomano e la Jugoslavia, non esistono più. Dovrebbe essere quindi più semplice liberarsi del passato ingombrante scaricando su altri le colpe ma così non è. L'ossessione nazionalista non ammette colpe. In nome e per conto del mito delle nazioni e dell'identità dei popoli si costruiscono ideologie, si pianificano massacri e si sviluppano le carriere dei leader. Il nazionalismo è merce facile da vendere in campagna elettorale. Prima o poi, però, bisogna fare i conti con la storia. Fare i conti con la storia è un passaggio fondamentale per la coscienza di ogni Paese. Per non dimenticare e fare tesoro degli errori del passato riconoscendo i torti degli uni e le ragioni degli altri.  
Paolo Bergamaschi

Il buio oltre la siepe

A Srebrenica oltre la siepe c’è il grande buio che alberga nel cuore delle donne che non hanno ancora rielaborato la loro tragedia, in quanto è estremamente difficile convivere nella stessa zona, e spesso nella stessa strada, con i massacratori dei propri mariti e dei figli. Non si può accettare di vivere a contatto, attimo per attimo, con i criminali che hanno ammazzato la loro ragione di vita o che sono gli autori degli stupri. A Srebrenica non è ancora iniziata la lunga fase della rielaborazione del lutto perché in moltissimi casi non c’è una tomba su cui piangere per la precisa volontà dei serbo-bosniaci di disperdere i resti delle fosse comuni in una miriade di altre fosse, rendendo impossibile il riconoscimento utilizzando la provata prassi nazista di occultare le prove.


Angelo Lallo
scrittore, storico

venerdì 17 luglio 2015

#MeseDellaMemoria/14 "Il buio oltre la siepe", Angelo Lallo per #Srebrenica

A Srebrenica oltre la siepe c’è il grande buio che alberga nel cuore delle donne che non hanno ancora rielaborato la loro tragedia, in quanto è estremamente difficile convivere nella stessa zona, e spesso nella stessa strada, con i massacratori dei propri mariti e dei figli. Non si può accettare di vivere a contatto, attimo per attimo, con i criminali che hanno ammazzato la loro ragione di vita o che sono gli autori degli stupri. A Srebrenica non è ancora iniziata la lunga fase della rielaborazione del lutto perché in moltissimi casi non c’è una tomba su cui piangere per la precisa volontà dei serbo-bosniaci di disperdere i resti delle fosse comuni in una miriade di altre fosse, rendendo impossibile il riconoscimento utilizzando la provata prassi nazista di occultare le prove.
Angelo Lallo
Scrittore, storico

giovedì 16 luglio 2015

"La lezione della Storia", il pensiero di Paolo Bergamaschi per #Srebrenica #MeseDellaMemoria

Per una strana coincidenza della storia il 2015 vede la commemorazione del centenario del genocidio armeno e del ventennale di quello di Srebrenica. Per entrambi i casi la lezione della storia dovrebbe essere accettata e condivisa ma purtroppo in entrambi i casi le autorità dei Paesi coinvolti negano l'evidenza e le sentenze delle corti internazionali giocando pericolosamente con i fatti. È singolare constatare le analogie della reazione del primo ministro turco Davoutoglu nei confronti dello sterminio armeno e di quello serbo Vucic nei confronti dello sterminio della cittadina bosniaca. Entrambi hanno espresso solidarietà, pietà e rispetto per le vittime ma entrambi hanno respinto con forza ogni accusa di genocidio. Eppure in entrambi i casi gli Stati sul banco degli imputati, l'impero ottomano e la Jugoslavia, non esistono più. Dovrebbe essere quindi più semplice liberarsi del passato ingombrante scaricando su altri le colpe ma così non è. L'ossessione nazionalista non ammette colpe. In nome e per conto del mito delle nazioni e dell'identità dei popoli si costruiscono ideologie, si pianificano massacri e si sviluppano le carriere dei leader. Il nazionalismo è merce facile da vendere in campagna elettorale. Prima o poi, però, bisogna fare i conti con la storia. Fare i conti con la storia è un passaggio fondamentale per la coscienza di ogni Paese. Per non dimenticare e fare tesoro degli errori del passato riconoscendo i torti degli uni e le ragioni degli altri.  


Paolo Bergamaschi

mercoledì 15 luglio 2015

"Chi non si muove non può rendersi conto delle proprie catene", diceva Rosa Luxemburg. L'opinione di Corrado Poli sulla #BuonaScuola

Mentre finiscono gli esami di maturità il Parlamento approva la riforma della scuola. Ma gli esami non finiscono mai e la nuova legge va considerata, come dice correttamente il ministro Giannini, un punto di partenza e non di arrivo. Contro la riforma si sono schierati tutti i sindacati che hanno una grave responsabilità: hanno provocato un ingiustificato allarme per indurre a un atteggiamento conservatore di rifiuto aprioristico e hanno perso di vista l’obiettivo di cambiare un’organizzazione obsoleta qual è la scuola di oggi.
La legge non è perfetta come tutte le cose umane, ma apre al cambiamento, la cui direzione sta a noi definire. C’è ancora molto da fare: l’atteggiamento e le paure favoriscono un deleterio immobilismo. Invece, oggi è finalmente possibile farsi domande mai sollevate prima e discutere costruttivamente. Per esempio: perché, anziché stracciarsi le vesti per l’ingiustificato e strumentale timore del preside-sceriffo, non si rimette mano agli organi collegiali o, meglio ancora, non si consente che ogni scuola definisca un proprio statuto autonomo con organi collegiali diversi? È proprio necessario che esista un solo ruolo dirigente per istituti fino a 1.500 studenti e 300 insegnanti? Non sarebbe il caso di istituire ruoli intermedi con compiti più prossimi alla didattica e più lontani dalla gestione? E magari tornare a chiamarli “presidi”? E questo vale anche per gli insegnanti: perché non prevedere carriere e qualche possibilità di scelta dell’attività? Perché non sono previsti ruoli specifici per funzioni essenziali di biblioteca, orientamento professionale, assistenza psicologica e sociale, che oggi sono svolte da insegnanti volontari? Perché non ridurre le ore di lezione per i giovani e consentire loro di organizzare spazi materiali e temporali in modo sempre più autonomo al crescere dell’età? Perché non rivedere le normative sulla responsabilità degli insegnanti sollevandoli da compiti polizieschi di controllo? La nuova legge prevede la possibilità di organizzare le scuole in modo diverso dall’attuale, ma perché tutte le potenzialità esistenti nella legge possano davvero essere attuate occorrono nuovi regolamenti e soprattutto una grande operazione di formazione e orientamento per dirigenti e insegnanti. Su questo il sindacato dovrebbe attivarsi da subito anche allo scopo di evitare abusi di potere che non sono insiti nella nuova legge, ma potrebbero esserlo nei comportamenti che si assumeranno. Gli istituti potrebbero sperimentare una nuova organizzazione delle classi sia come spazi sia come aggregazione degli allievi sulla base delle capacità (o delle difficoltà della materia) o del genere o chissà cos’altro anziché del solo parametro attuale dell’età che trasforma le classi in un letto di Procuste per tutti.

Resta molto da fare, se lo si vuole fare da oggi in poi. Ma c’è chi preferisce spaventarsi, spaventare e restare immobile. “Chi non si muove non può rendersi conto delle proprie catene”, erano le parole di Rosa Luxemburg.

#Rwanda e #Srebrenica nelle parole di Yolande Mukagasana per #MeseDellaMemoria

L’incontro delle memorie a Srebrenica

Giunta a Srebrenica, la mia prima sorpresa è stato l’odore di morte. Ho avuto l’impressione di sentire la fossa comune allo stesso modo di quando ne apriamo una in Rwanda. Forse è perché sapevo quanto vi era accaduto. La notte non sono riuscita, senza una ragione, a dormire.
Una situazione strana. Nessun ragazzo gioca nelle strade di Srebrenica nonostante ci sia un tempo splendido.
Nel 1995 sono stati uccisi tutti gli uomini e i ragazzi musulmani dai 12 anni in su. Alcuni sopravvissuti non sono più ritornati. Dovunque ci sono rovine come nel Rwanda proprio dopo il genocidio.
La sofferenza non ha altro colore di pelle che il suo.
La sofferenza non ha altra lingua che la sua.
Quando ho incontrato le madri di Srebrenica, ho visto il loro dolore, ho visto il mio attraverso i loro occhi disperati: noi abbiamo comunicato così! Loro parlano bosniaco e io parlo francese. Abbiamo pianto insieme. Abbiamo condiviso la nostra sofferenza, le nostre ferite e ci siamo subito capite.
Mi pongo domande in modo ancora più forte di quanto me le ponga sul Rwanda. Nel Rwanda esiste un abbozzo di giustizia. Non è tutto perfetto. Ma almeno le forze che hanno pianificato il genocidio non governano più nel Rwanda. Anche se lo Stato è originariamente responsabile del genocidio, ora non è più governato dagli stessi individui che ho visto brandire armi da fuoco e machete, né la stessa ideologia di allora dirige il Paese. Il nuovo governo del Rwanda ha richiesto un tribunale penale internazionale e l’Onu l’ha istituito. Questo tribunale ha almeno il merito di esistere, anche se non mi soddisfa, ma i carnefici non dormono tranquilli là dove si sono sottratti alla giustizia, fuggendo attraverso il mondo. Hanno cambiato talvolta i loro nomi e le loro identità per camuffarsi. C’è però una giustizia da qualche parte, anche se ciò non serve a niente a noi, alle vittime.
A Srebrenica è differente. Dalle testimonianze risulta la prova che il Potere pensava di massacrare i musulmani fino all’ultimo. Ma alcune vittime sono riuscite a fuggire fino a Tuzla. È per questo che io do ragione ai miei antenati che hanno detto: ”Nessuno può sterminare un popolo”. Vi è sempre qualche sopravvissuto (Ntabapfira gushira).
Almeno in Rwanda abbiamo una forza positiva che ha fermato il genocidio, ma questo non è successo a Srebrenica. Ho appreso che alcune vittime che sono sopravvissute hanno trascorso sei mesi nella foresta senza rendersi conto che i massacri erano cessati. Hanno continuato a fuggire affamate e assetate.
Da noi durante il genocidio, anche se i caschi blu dell’Onu non hanno fatto niente per arrestare i massacri, non ci hanno fatto del male prima dell’arrivo della missione umanitaria francese. A Srebrenica è stato ancora differente. I caschi blu avrebbero violentato le donne che si erano rifugiate da loro. Per me, è fuggire la morte verso la morte! I caschi blu avrebbero dato le armi al potere sterminatore!
Non capisco perché nessuno vuole ricostruire Srebrenica.
Non capisco perché nessuno fa giustizia nei confronti di un crimine di genocidio riconosciuto dalla giustizia internazionale. Dopo un simile crimine le potenze non vogliono che la giustizia sia fatta, ma quando si verificano gli tsunami tutti si precipitano perché questi non pongono il problema delle responsabilità umane.
Quale disperazione per le vittime vedere che il potere, che ha pianificato ed eseguito i massacri dei musulmani di Srebrenica, è lo stesso che governa ancora e che dovrebbe rendere loro giustizia!
Impensabile, inimmaginabile, disgustoso!
E ogni pretesto è buono per colpire l’Afghanistan, l’Iraq, presto si colpirà l’Iran e, ancora come al solito, i piccoli pagheranno per i grandi.

Yolande Mukagasana
sopravvissuta al genocidio del Rwanda

martedì 14 luglio 2015

"Passano gli anni, rimangono i problemi" Paolo Rumiz per #MeseDellaMemoria

Sono passati tanti anni ormai, ma non uno dei problemi della guerra del 1992-1995 è stato risolto. Il potenziale incendiario dell’area è rimasto intatto. Ma il peggio è che non abbiamo risposto a nessuna delle domande scomode sulle nostre responsabilità in quel conflitto nel cortile di casa nostra. Srebrenica è il monumento a questa rimozione interessata. Perché la Nato non è intervenuta? Perché le Nazioni Unite sono scomparse dalla zona di operazioni? A cosa è servito riedificare in pompa magna Srebrenica e ricostruire il ponte di Mostar se i Balcani sono scomparsi dalle agende della politica? Che speranza possiamo promettere a questa gente se non riusciamo a punire i colpevoli? Che democrazia, che sviluppo può rinascere in assenza di giustizia?

Paolo Rumiz

lunedì 13 luglio 2015

"Le responsabilità e la giustizia", Carla Del Ponte per #MeseDellaMemoria

"Sulla piena responsabilità di Ratko Mladić nel genocidio di Srebrenica non ci sono attenuanti, ma il processo contro l’ex generale potrà fare luce sulla verità e chiarire eventuali corresponsabilità di quella che è e rimarrà per sempre una delle pagine più drammatiche dei fatti criminali nella moderna e democratica Europa. Giustizia per le vittime, i sopravvissuti e ancora, come a Norimberga, perché non si ripeta mai più, never again".

Carla Del Ponte
Magistrato, diplomatico, ex Procuratore Capo del Tribunale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia

sabato 11 luglio 2015

Non cadere vittime del revisionismo, Roccardo Noury per Srebrenica

Ci hanno ricordato, negli ultimi nove anni, che gli anniversari "tondi" sono quelli utili, nel mondo dell'informazione, per ricordare i crimini del passato. Ce lo avevano detto anche nei nove anni precedenti il 2005. Allora, non lasciamo passare invano il ventesimo anniversario del genocidio più veloce della storia. Anche perché, per il tempo che verrà il trentesimo, l'opera dei revisionisti si sarà completata. Apprenderemo allora, per assurdo, che Srebrenica era una “zona contesa” e non una “zona protetta”, che il memoriale di Potočari è stato il set di una fiction e che gli ultranazionalisti serbo-bosniaci e serbi sono stati perseguitati dalla giustizia internazionale. 
Riccardo Noury
Portavoce
Amnesty International Italia

venerdì 10 luglio 2015

Non posso dimenticare Srebrenica, Irfanka Pašagić per #MeseDellaMemoria

Srebrenica vent’anni dal genocidio è una città dove, malgra­do il male, ha vinto la vita. Le ferite però sono ancora troppo profonde: ammoniscono e richiamano alla mente ciò che c’è stato.
Non potete rimanere indifferenti se venite a Srebrenica.
Al ritorno, dovete portarvi dietro il peso della tragedia che poteva essere evitata, ma anche lo stupore per la bontà delle persone che incontrate. Due mondi diversi in uno.
Non posso dimenticare il luglio del 1995.
Non posso dimenticare le colonne di affamati, di dispersi. Non posso dimenticare il vuoto negli occhi dei bambini e delle madri, il doloroso aspettare e sperare che qualcuno dei membri della loro famiglia sarebbe arrivato vivo…
Non posso dimenticare l’orrore negli occhi di Tadeusz Mazowie­cki in una delle tende piantate nell’aeroporto Dubrave, vicino a Tuzla, dove erano state portate le donne e i bambini sopravvissuti, quando a voce bassa mi chiedeva se tutto quello che raccontavano di aver vissuto era vero e quando anch’io, messa a confronto con un tale indicibile crimine, che non potevo accettare, iniziavo a spe­rare che forse sì, forse non era proprio così. Penso di avergli anche risposto così… che forse non lo era…
Ancora oggi, camminando per Srebrenica, passando vicino a tan­te case vuote, davanti ai miei occhi vedo i volti sorridenti di quelli che non ci sono più.
E vedo la vergogna della comunità internazionale che poteva, ma non voleva.
E vedo gli occhi del mondo chiusi di fronte al dolore della ma­dre Hajra e di tante altre madri che nemmeno vent’anni dopo riescono a trovare le ossa dei propri figli uccisi e senza l’autoriz­zazione delle autorità della Repubblica Srpska neppure hanno il permesso di visitare i luoghi del loro calvario, almeno per lasciarci un mazzo di fiori.
Oggi, vent’anni dopo, ci sono ancora quelli che non vogliono sapere oppure negano che a Srebrenica sia stato commesso un genocidio.
Sono ancora troppi quelli che passeggiano liberamente per Sre­brenica e non dovrebbero. Per le morti di cui sono colpevoli, per il dolore che hanno causato, per il male che richiamano ancor’oggi…
Parlare di Srebrenica è difficile.

Irfanka Pašagić
Psichiatra, fondatrice di Tuzlanska Amica

giovedì 9 luglio 2015

Nuovo in libreria: Racconto a due voci, di Raffaella Greco Tonegutti e Giordana Morandini

Infinito edizioni – nuovo in libreria
Racconto a due voci
(€ 12,00, pag. 96)
Di Raffaella Greco Tonegutti e Giordana Morandini
Prefazione di Sonia Bergamasco

Madame Isabel e Maddalena si conoscono e interagiscono davanti al tavolo della cucina di Madame Isabel, in una Bruxelles grigia e impersonale. Madame Isabel è una migrante spagnola, arrivata in Belgio in fuga dalla repressione della Spagna franchista e segnata da una vita di fatica e tentativi di integrazione, mantiene vivo nel cuore il ricordo del marito minatore prematuramente scomparso. Maddalena è una giovane italiana che si trova all’estero per motivi di studio. Le due donne – nella casa accogliente di Madame Isabel con i caratteristici mattoncini rossi – intrecciano una stretta confidenza e familiarità tra le loro vite e storie, seppure così diverse e lontane. Il ventre dell’Europa e la tavola intorno a cui si accomodano tanti giovani di passaggio in cerca di opportunità servono da sfondo alla relazione tra migrazioni antiche e moderni spostamenti nello spazio Schengen, in un dialogo tra donne in movimento che ricostruisce il senso della perdita, dell’appartenenza e della scelta.
“La storia è quella di un incontro che fa germogliare altre possibilità di incontro e di ascolto. Vite e storie che si avvicinano, per invenzione e necessità, alla ger­minazione di storie della fiaba orientale. Una Mille e una notte del Nord, in una Bruxelles abitata, condivisa e patita da uomini e donne in cammino, segnata da storie di emigrazione, di fatica, di adattamento e di differenza”. (Sonia Bergamasco)
Le autrici
Raffaella Greco Tonegutti (Roma, 1979) è consulente della Commissione Europea e delle Nazioni Unite sui temi della migrazione e dei diritti umani. Vive tra Roma e l'Africa, dove passa gran parte dell'anno lavorando con e per le popolazioni migranti.
Giordana Morandini Morandini (Roma, 1984), laureata in Filosofia all’Università La Sapienza di Roma, è un’attrice formata all'AIAD che attualmente lavora con il teatro Quirino di Roma e collabora con il drammaturgo Fabio Mureddu.