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lunedì 18 luglio 2016

18 luglio, Mandela Day

L’assemblea delle Nazioni Unite ha stabilito che il 18 luglio di ogni anno venga celebrato il “Mandela Day” per ricordare il fondamentale contributo dato alla lotta antiapartheid e alla realizzazione degli ideali di libertà dal leader sudafricano, già premio Nobel per la pace nel 1993. Mandela è stato il primo Presidente nero del Sudafrica, ha guidato la lotta contro il regime segregazionista e gettato le fondamenta per un Sudafrica libero, democratico e multirazziale.
Ogni anno, in questa giornata, le Nazioni Unite invitano tutti a dedicare 67 minuti agli altri, ciò che fece Mandela per 67 anni della sua vita, a servizio dell’umanità.
Festeggiamo il “Mandela Day” con il libro SUDAFRICA IN BIANCO E NERO di Marco Buemi (prefazione di Nicola Zingaretti – introduzione di padre Giulio Albanese).

Lo sport ha da sempre scandito, come poche altre cose, gli eventi, le divisioni e le riconciliazioni della nostra storia. Non fa certo eccezione il Sudafrica, come ricorda Marco Buemi, dove la maglia verde degli Springboks, la naziona­le di rugby, era considerata uno dei più odiosi simboli del regime di divisione imposto dall’apartheid, almeno fino a quando Nelson Mandela non ha saputo farne uno stru­mento di unità nazionale.
A Robben Island, dove lo sport fu incluso tra le prime timide concessioni ai detenuti, la palla ovale venne imposta a rotazione settimanale col calcio.
Fu Mandela, padre del nuovo Sudafrica, con il suo solito coraggio e la sua lungi­miranza, a decidere che proprio il rugby poteva essere l’emblema della riconciliazione nazionale. Fu lui a volere che nel 1995 il Sudafrica ospitasse i mondiali di rugby, e fu sempre lui a vincere una delle più grandi sfide diplomatiche interne: fare in modo che quell’anno i neri tifassero per la prima volta per la squadra dei bianchi.
La fine dell’apartheid passa per le mani di “Mandiba” ma anche per le gambe di Chester Williams, il primo giocatore coloured a vestire – per ragioni molto più politiche che sportive – il verde dei bokke e che segnò le quattro mete alla Francia che portarono gli Springboks in finale contro la squadra più forte del mondo, la Nuova Zelanda. La fine dell’apartheid, per lo meno di quello sportivo, passa anche per il cuore di Francois Pineaar, il più che mai afrikaneer capitano della compagine sudafricana che, dopo aver conosciuto Mandela, trasmise ai suoi compagni di squadra la convinzione che si stesse giocando più di un mondiale.

Il giorno della finale, Mandela stupì tutti indossando la maglia che era stata il simbo­lo dell’apartheid col numero sei di Pineaar, in uno stadio dove il pubblico, per la quasi totalità bianco, gridava il nome di Mandela e intonava Shosholoza (inno morale dei minatori neri). Il Sudafrica libero e democratico vinse il mondiale facendo esplodere la gioia negli stadi e nelle township. Quando Mandela consegnò nelle mani di Pineaar la Webb Ellis Cup, entrambi indossavano la maglia verde degli Springboks con il numero sei.

giovedì 14 luglio 2016

14 luglio, un anno dell'accordo sul nucleare iraniano

“È passato un anno dallo storico accordo sul nucleare ma per l'Iran rimangono ancora aperte moltissime questioni, sia sul fronte interno sia per quanto riguarda le relazioni internazionali” - esordisce Antonello Sacchetti, il nostro autore esperto di Iran. “Se l'Iran Deal ha chiuso un contenzioso diplomatico che durava da oltre dieci anni, non possiamo ancora dire che Teheran sia davvero entrata a pieno titolo nella comunità internazionale. Così come rimane apertissimo il confronto interno tra conservatori e moderati. A un anno dalle elezioni presidenziali che decideranno se Rouhani avrà o meno un altro mandato, il Paese sta senza dubbio vivendo una trasformazione sociale interessante, in cui permangono problemi storici ma in cui si stanno facendo largo istanze, soggetti e comportamenti del tutto inediti. È senza dubbio un momento molto interessante".

Che cosa è stato l’Iran nel Novecento e come sia l’Iran oggi sono le domande a cui prova a rispondere Antonello Sacchetti nel libro, da pochissimo in libreria, dal titolo La rana e la pioggia. L’Iran e le sfide del presente e del futuro.

martedì 12 luglio 2016

Il ricordo di #Srebrenica di Pierfrancesco Curzi

Concludiamo i nostri ricordi e pensieri su Srebrenica con Pierfrancesco Curzi, autore di In Bosnia. Viaggio sui resti della guerra, della pace e della vergogna


  Nell'abitato di Potočari, a due passi dalla fabbrica della morte e dalla spianata del pianto, in mezzo ad alcune case ridotte a ruderi, c'è un campo di calcetto. Spesso è occupato da bambini e ragazzini di varie età, impegnati a superarsi col pallone. Indossano maglie di squadre di calcio importanti, anche di italica origine. Di fronte, un piccolo negozio di alimentari e la fermata dell'autobus della linea che collega Srebrenica a Bratunac. La strada sale dolce verso la città termale, lascio l'auto a Potočari e, a piedi, raggiungo Srebrenica. Con calma, il tempo dalla mia parte. La pianura si fa campagna e di nuovo città, attraverso uno scenario noto. Reciproci saluti, l'offerta di un čaj o di un bicchiere d'acqua, l’ostacolo della lingua è solo parziale. L'ingresso a Srebrenica, il distributore sulla destra, quindi i primi palazzi, la stazione degli autobus, le baracche dei profughi ed ecco gli edifici restaurati di recente. Uno, di fianco alla sede del Comune, è diventato un hotel; quello di fronte fungeva da linea di mezzeria della strada, oggi ospita negozi, caffè e ristoranti. Salgo fino alla piazza principale, eccolo il caffè all'aperto, ricavato dentro un container, ricordo dei giorni dell'inferno. Sempre a piedi imbocco la stradina al suo fianco salendo ancora verso l'hotel Domavia, quanto meno i resti abbandonati dove vivono ancora dei poveri cristi. A monte, infine, dove la strada va a morire, la sede delle mitiche terme Guber. Nelle giornate di sole, è curioso farsi ombra grazie alla torre del minareto o al campanile della chiesa, un centinaio di metri l’una dall’altro. Simbologia stravolta di una convivenza perduta. Sta imbrunendo, decido di rientrare a Potočari. Appena fuori dal centro ecco la scuola con i campetti da basket, gli stessi dove, durante la guerra d’aggressione alla Bosnia e ai bosniaci, sono cadute le granate serbe, facendo strage di innocenti. Le nuove generazioni si divertono senza avere idea di cosa è accaduto lì vent'anni prima. È un piacere ascoltare le voci dei bambini al gioco, chiudere gli occhi e immaginarsi l’inferno di allora. Posso solo immaginare. E mentre, all'imbrunire, riprendo il cammino verso Potočari, stavolta in favorevole discesa, con fatica cerco di bloccare l'incedere di una lacrima. Sconfitta annunciata.

lunedì 11 luglio 2016

#leggereSrebrenica/4

Nel giorno dell’anniversario della caduta di Srebrenica le parole di Luca Leone, in Srebrenica. La giustizia negata, ci presentano i tre ricordi di Hatiđa Mehmedović
Hatiđa Mehmedović, una donna di cui ho raccontato in un intero capitolo del mio Srebrenica. I giorni della vergogna, uscito per il decennale del genocidio, e a cui hanno porta­to via tutto. Le sono rimaste tre cose che le ricordano d’essere stata sposata, d’aver avuto una famiglia, una vita normale. Un tempo.
La prima cosa: una vecchissima foto sgranata che ha ritrovato per caso da lontani parenti e di cui ha fatto rifare il negativo per poterla stampare in formato gigante. Perché gli sterminatori ultra­nazionalisti serbo-bosniaci e serbi di Srebrenica e i delatori che li hanno fiancheggiati sul posto hanno prestato molta attenzione a cancellare tutto ciò che potesse raccontare della secolare presenza musulmana bosniaca in città.
La seconda: l’abete piantato di fianco alla casa dal figlio maggiore, ammazzato dai criminali alle dipendenze di Mladić.

Infine, il nome tracciato con un legnetto dal figlio minore quand’e­ra bambino sul cemento del marciapiede intorno a casa, steso dal marito prima che la guerra scoppiasse. Ammazzati anche loro due, padre e figlio più piccolo. Di uno di loro tre sono stati ritrovati i resti. Degli altri ogni tanto esce fuori qualcosa dal terreno della Republika Srpska, trasformato in quella zona in un’immensa fossa comune, op­pure dai sacchi bianchi del centro commemorativo di Tuzla, il luogo in cui porterei in visita d’istruzione tutti i potenti della Terra e i loro leccapiedi di certa stampa e di certa impresa, lasciandoli qualche de­cina di minuti chiusi in un frigorifero di duecentocinquanta metri quadrati pieno di sacchi di esseri umani fatti a pezzi e riesumati da fosse comuni secondarie e terziarie.

domenica 10 luglio 2016

#leggereSrebrenica/3

Il ricordo di Srebrenica oggi è affidato a Marco Travaglini, autore di Bosnia, l’Europa di mezzo. Viaggio tra guerra e pace, tra Oriente e Occidente
Ogni volta che torno da Srebrenica e da Potočari, porto con me le immagini del filmato che documenta lo sporco “lavoro” degli “Scorpioni”, delle truppe paramilitari d’assalto, delle milizie del boia Mladić. Si filmarono da soli, in preda a un delirio di onnipotenza, per testimoniare le loro nefandezze. Si vedono mentre inseguono i fuggiaschi nei boschi, puntando le armi su una fila di bosniaci disperati. Sanno cosa fare: prendono un uomo alla volta, lo portano in mezzo alla boscaglia, gli sparano. S’intuisce la loro richiesta prima di ogni esecuzione: “Guarda per terra”. Poter non guardare in faccia la propria vittima, hanno spiegato gli psicologi, è ciò che serve anche al più duro dei criminali per resistere allo stress di un genocidio. È una richiesta allucinante, come dire “ora ti sparo. Abbassa gli occhi e muori. Muori, ma non guardarmi”.
Le immagini scorrono nella fabbrica di batterie fredda e silenziosa, incollando gli sguardi allo schermo. Un silenzio che si fa ancora più assordante, spezzato di tanto in tanto da qualche rumore metallico (basta appoggiarsi o inciampare in qualche struttura per provocarlo e amplificarlo nel vuoto di questi enormi scatoloni di ferro e cemento). L’atmosfera è sempre pesante e la tensione diventa palpabile, densa. Un grumo di emozioni s’accumula e fatica a sciogliesi in uno stress emotivo. Viene il magone e in fondo è un atto liberatorio, un modo per espellere il veleno inoculato negli animi da queste immagini che non sono tratte da un film ma dalla testimonianza, diretta e cruda, di una realtà violenta e arrogante. Sembra di udire la voce profonda e un po’ rauca di Giovanni Lindo Ferretti. Ne immagino la faccia scavata, senza età mentre canta Memorie di una testa tagliata. Parole che fanno riflettere lì, a Srebrenica.
“Chi è che sa di che siamo capaci tutti, vanificato il limite oramai. Vanificato il limite, sotto occhi lontani, indifferenti e bui…Pomeriggio dolce assolato terso, sotto un cielo slavo del Sud. Slavo cielo del Sud non senza grazia”.
Un limite oltrepassato, calpestato, negato con un cinismo paragonabile solo alla pianificazione nazista dell’Olocausto. E tutto questo cinquant’anni dopo. Segno che la storia, troppe volte, non insegna niente, nonostante offra un infinità di occasioni su cui riflettere, da cui imparare. Quando si esce da quei capannoni è come s’uscisse da una tomba. Qui è il cuore della memoria rimossa dell’Europa, dove esiste un Islam europeo, ma è un’anomalia che disturba, nello schema dello scontro Oriente-Occidente.
Predrag Matvejević, scrittore e grande intellettuale balcanico, nato a Mostar, croato-bosniaco con cittadinanza italiana, un giorno scrisse: “Li hanno fatti fuori per questo. Sono una complessità intollerabile in un mondo fatto di bianco e nero. Oggi esiste solo l’Islam che spaventa. Dell’altro chi se ne frega. I musulmani dal volto umano al massimo si compatiscono, come quelli di Srebrenica. Chi se ne importa di un popolo che si fa massacrare e poi non mette nemmeno una bomba? E invece in Bosnia c’e un Islam europeo, che lascia le donne libere, le gonne corte, che accetta i matrimoni misti e quando c’è del buon vino lo beve, senza problemi. Una risorsa dimenticata, che si sarebbe potuta giocare contro i fondamentalisti”.

Pure e semplici verità che andrebbero considerate come antidoto al delirio del Califfato che preannuncia attacchi nei Balcani per “difendere i musulmani e terrorizzare gli infedeli”, richiamandosi proprio a Srebrenica. 

sabato 9 luglio 2016

#leggereSrebrenica/2

Oggi, ancora grazie a Srebrenica. La giustizia negata, rivediamo la Potočari di un tempo.

  Oggi chi visita Potočari si reca in un luogo quasi perfetto nella sua solennità intrisa di dolore. Un luogo che invoca silenzio, pietà e comprensione. Un cimitero quasi museale, con migliaia di stele per­fettamente ordinate e solenni a disegnare un piccolo bosco di bonsai bianchi immobili anche quando soffia il peggior vento. A quel tem­po non c’erano stele di marmo bianco. C’erano solo tavole di legno verde e fango. L’erba era poca e si camminava su una terra argillosa e appiccicosa che sembrava non volesse lasciarti andare via. Su due o tre tombe qualcuno aveva portato dei fiori di plastica. Su uno spa­ruto numero di altre c’era qualche fiore piantato, piuttosto provato, talvolta una piantina striminzita. I musulmani in circolazione erano pochissimi. Giravano molte persone armate e di notte era raccoman­dabile non farsi vedere. Ancora oggi è meglio cambiare strada, se hai la sfortuna d’incontrare qualcuno di quelli che ha torturato, stuprato e ammazzato, rigorosamente a piede libero. C’era un solo bar aperto e un microscopico negozio di alimentari. Tutto era buchi di mitra­gliatrice e di mortaio. Tutto era morte, abbandono, lutto.

venerdì 8 luglio 2016

#leggereSrebrenica/1

L’11 luglio 1995, Srebrenica: oltre diecimila maschi tra i 12 e i 76 anni vengono catturati, torturati, uccisi e inumati in fosse di massa. Stesso destino hanno alcune giovani donne abusate dalla soldataglia. Le vittime sono bosniaci musulmani, da oltre tre anni assediati dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache agli ordini di Ratko Mladić e dai paramilitari serbi. Ripercorriamo quei giorni con le parole di alcuni nostri autori che hanno affrontato questo argomento.
Il ricordo di oggi ci viene dal libro di Luca Leone e Riccardo Noury dal titolo Srebrenica. La giustizia negata e descrive la visita di Bill Clinton a Potočari
Bill Clinton giunse a Srebrenica il 20 settembre 2003. Prima non c’era mai stato. Eppure era lui il presidente degli Stati Uniti d’Ame­rica ai tempi del genocidio. Clinton entrò in carica per il suo primo mandato nel 1993 e chiuse il suo secondo termine nel 2001. È a lui che si deve la fine – seppur tardiva e sbagliata, nei termini e ne­gli accordi – del conflitto bosniaco del 1992-1995. L’ex presidente della superpotenza mondiale per antonomasia giunse nel luogo del martirio di oltre diecimila civili inermi quasi sospeso in una nu­vola di telecamere, flash, taccuini, domande a cui in buona parte non fu data risposta, aspettative. Impeccabile in giacca e cravatta. Clinton tenne il discorso d’inaugurazione del cimitero memoriale di Potočari. Davanti a migliaia di vedove, di figlie, di sopravvissute al genocidio di Srebrenica, perpetrato appena otto anni prima, si commosse pronunciando frasi pesanti come macigni proprio per­ché cariche di promesse e di princìpi mai e poi mai attuati. Prima di leggere il suo discorso aveva incontrato in privato una delegazione di donne di Srebrenica. Aveva fatto promesse. Aveva chiesto scusa. S’era commosso. Era stato attaccato. Era stato persino consolato. Lui. Davanti alle telecamere di tutto il globo, in un memoriale in cui erano state sepolte in luglio le prime centinaia di piccole bare verdi piene di ossa, solo d’ossa, Clinton disse cose di questo tenore:
“We remember this terrible crime because we dare not forget, be­cause we must pay tribute to the innocent lives, many of them children, snuffed out in what must be called genocidal madness…”.
“I hope the very mention of the name Srebrenica will remind every child in the world that pride in our own religious and ethnic heritage does not require or permit us to dehumanize or kill those who are dif­ferent. I hope and pray that Srebrenica will be for all the world a sober reminder of our common humanity”.
“May God bless the men and boys of Srebrenica and this sacred land their remains grace”.
Lacrime. Promesse. Lui che si allontana con un’immensa scorta.
Bugie. L’ennesimo “che non accada mai più” pronunciato a vanvera da un potente. Come quelli detti dopo la Shoah, dopo Hiroshima e Nagasaki, dopo la guerra di Corea, dopo il Vietnam… e così via, fino al Rwanda, 1994, e Srebrenica, 1995, e poi fino ai nostri giorni. “Mai più” falsi e bugiardi.

martedì 5 luglio 2016

6 luglio 1991, verso la fine della guerra in Slovenia

Venticinque anni fa si svolgeva in Slovenia la prima guerra di indipendenza che avrebbe portato in breve alla dissoluzione della Jugoslavia. Abbiamo deciso di ripercorrere quei giorni insieme a Bruno Maran e al suo ottimo libro dal titolo Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti.
6 luglio – Fine delle operazioni militari in Slovenia. Sono stati “dieci giorni di guerra”.

La sonda Juno ha raggiunto Giove: dal mito greco al successo scientifico

"Welcome to Jupiter!" è il grido che si è levato assieme all'applauso nel quartier generale del Jet propulsion laboratory della Nasa, in California alle 5:53 italiane. Sono scattati tutti quanti in piedi nel momento in cui è arrivata la conferma da oltre 500 milioni di chilometri: la sonda Juno si è inserita nell'orbita di Giove, il suo motore principale ha eseguito una manovra perfetta. L’importantissimo risultato scientifico, frutto di 11 anni di lavoro di cui cinque di viaggio, compiuto esclusivamente a energia solare, fa esultare la comunità scientifica internazionale che attende con trepidazione le prime immagini inviate che saranno inviate da Juno nelle prossime ore.
Stasera, alzando gli occhi al cielo non potremo fare a meno di ripensare alle origini del mito di Giove nella tradizione degli antichi greci, raccontata da Daniele Scaglione in “Le storie che costellano il cielo”. Vi regaliamo la parte dedicata al re dell’Olimpo, insieme a preziosi consigli su come trovarlo nel cielo stellato.
“Giove ci va a spasso nel cielo, e lo fa con sfoggio di potenza. D’altra parte è il re. Prima comandava Saturno, suo padre. Un giorno questi parla con un veggente. «Sovrano dei cieli e della terra, sta per nascere chi ti toglierà il potere», gli dice l’indovino. «Ohibò, questa storia non mi piace per niente. – replica Saturno – E chi sarà a farlo?». «Uno dei tuoi figli», è la risposta. “Quand’è così – pensa il dio – so cosa devo fare”. Ogni volta che a sua moglie Opi iniziano le doglie, il dio sta pronto a intervenire. Come il piccolo sbuca, oplà, se lo ingoia. Dopo quattro figli ingurgitati, Opi perde la pazienza. Tutte quelle gravidanze per niente. Così, appena nato il quinto bebè, la donna ha la prontezza di sostituirlo con un pietrone. Saturno, abituato a mandare giù figli sen­za neppure assaggiarli, ingoia il sasso e non s’accorge di niente. Il bimbo viene chiamato Giove e fatto crescere di nascosto dal padre. Quando è sufficientemente forte e robusto, lo va a incontrare. «Scusa papà, ti sembra una bella cosa aver messo in pancia i miei quattro fratelli? Fac­ciamo un accordo: se li cacci fuori e poi ti ritiri a vita privata senza fare storie, dimentichiamo tutto». Saturno, impressionato dalla possanza del suo figliolo, obbedisce docilmente. Tira fuori la pietra che credeva fosse Giove e i suoi quattro fratelli: Cerere, Nettuno, Plutone e Giunone.
Benché il momento non sia propriamente romantico, Giove s’innamo­ra di una delle due sorelle. Giunone, vuoi perché quel giovane è proprio bello, vuoi per riconoscenza, ricambia. Così si fidanzano e quello è forse il loro unico momento sereno insieme. Definire tormentata la loro rela­zione è poco e i loro litigi hanno parecchie conseguenze su noi dèi, sugli esseri umani, sugli animali…”

E ora, qualche consiglio per orientarsi, sempre grazie a Daniele Scaglione
“Gli antichi si accorsero che tra tutti i punti luminosi sopra di loro ve ne erano cinque, come dire, “anomali”. Tre di loro, per alcuni periodi, erano nettamente più luminosi delle stelle. Sono Venere, Giove e anche Marte, mentre Saturno è un po’ meno brillante. (…) Altra cosa che notarono gli antichi è che la luce di questi cinque og­getti è fissa, non tremula come quelle degli altri (oggi sappiamo anche perché: c’entra il fatto che sono molto, ma molto molto più vicini alla Terra di quanto non lo siano le stelle). Un’altra cosa che probabilmente avevano notato i Greci e gli altri popoli che iniziavano a osservare il cosmo è che queste luci non si adeguavano a nessuna costellazione: pas­savano da un disegno in cielo all’altro. Facevano un po’ quello che gli pareva: come gli dèi, appunto.

Giove, da buon sovrano, mantiene il controllo della situazione. La sua luminosità, anche nei momenti di massimo splendore, è minore di quella di Venere, però mantiene salda la posizione in cielo per parecchio tempo nel corso della notte. La sua luce biancastra, fissa e tranquil­la, dovrebbe essere facilmente reperibile. Osservare Giove già solo con un buon binocolo può dare una grande soddisfazione: scorgere i suoi quattro satelliti medicei, scoperti nel 1610 da Galileo (anche se pare che pure il tedesco Simon Marius, qualche giorno dopo, sia riuscito a osservarli, indipendentemente. I due litigarono non poco). Si tratta di Io, Ganimede, Europa e Callisto, i più grandi e luminosi tra gli oltre sessanta satelliti del pianeta”.

lunedì 4 luglio 2016

5 luglio, la guerra in Slovenia

5 luglio – I ministri degli Esteri dei dodici Paesi della Comunità europea si riuniscono a L’Aja, dove emergono le prime divergenze. Germania, Belgio e Danimarca propongono il riconoscimento di Croazia e Slovenia; gli altri, in particolare la Francia, sono contrari. La decisione comune prevede il con­gelamento del sostanzioso aiuto finanziario che la Cee aveva promesso alla Jugoslavia e l’imposizione di un embargo sull’importazione di armi, letto da più parti come un tentativo di favorire l’Armata federale. Alla tv di Belgrado appare un delirante Šešelj: “Sgozzare i croati non con il coltello, ma col cucchiaio arrugginito…”. Reazioni sdegnate degli intellettuali serbi riuniti nel Circolo di Belgrado. Gli sloveni consegnano alla Croce rossa 2.400 prigionieri, ma mon­tano “cavalli di frisia” anticarro lungo le vie di accesso alle caserme della Jna.

Guerra in Slovenia, i fatti del 4 luglio

4 luglio – Con il cessate-il-fuoco in atto, i due fronti si disimpegnano. Le forze slovene prendono il controllo di tutti i posti di dogana ed è permesso alle unità della Jna di ritirarsi nelle proprie caserme o ripassare il confine con la Croazia. La presidenza federale ordina il ritorno alla normalità con la liberazione dei prigionieri, la smobilitazione delle milizie armate, la nor­malizzazione delle comunicazioni, secondo la mediazione della troika della Cee. Disposizioni difficilmente applicabili in tempi brevi.
Missione delle “madri coraggio” da Belgrado a Lubiana per soccorrere le reclute assediate nelle caserme in territorio sloveno. In realtà si tratta di una manovra diversiva della Jna per uscire dall’isolamento, per mascherare le umi­liazioni, ma giova anche alla Slovenia per raffreddare la situazione. Il vice-pre­sidente del parlamento serbo Obrodović, che accompagna i genitori, davanti al divieto imposto dagli ufficiali all’incontro con le reclute, afferma: “Le madri non sono qui per fare politica, ma per vedere i figli”, sbloccando la situazione.

Un giornalista francese parla dell’esistenza di un “piano Bedem ‘91” stret­tamente confidenziale mirato contro i “nemici interni” delle repubbliche secessioniste, ma anche contro un eventuale intervento Nato a sostegno di Slovenia e Croazia, legato a vecchi piani segreti dell’epoca di Tito.

domenica 3 luglio 2016

3 luglio 1991, la guerra in Slovenia

3 luglio – Un grosso convoglio della Jna si mette in marcia da Belgrado, apparentemente verso la Slovenia. Non vi arrivò mai, secondo fonti ufficiali a causa di problemi meccanici. I combattimenti continuano in Slovenia, mentre una forza di soccorso della Jna, diretta al punto di confine con l’Au­stria di Gornja Radgona, è bloccata vicino a Radenci. In serata la Jna si ac­corda per un vero cessate-il-fuoco e il ritiro verso le proprie caserme. Il gene­rale Adžić in un proclama televisivo tuona contro i nemici della Jugoslavia, contro i traditori che sono nelle stesse “nostre fila”, contro chi “non capisce che siamo in guerra con gente che odia la Jugoslavia, mentre noi la amiamo” e ribadisce che intende dare un colpo decisivo alla Milizia territoriale slovena.
Respinta dall’Armata federale la mediazione di Mesić, che è anche capo del­le forze armate. È in corso un vero e proprio braccio di ferro col capo di Stato maggiore Adžić, che fa affluire verso la Slovenia nuove truppe e altri tank: in tutto sono mobilitati 500 carri armati sui circa 2.000 in possesso della Jna, ma la maggior parte rimane in Croazia e Bosnia. Una colonna di carri, uscendo dalla caserma Tito di Zagabria, travolge manifestanti croati, provocando alcu­ni morti. A Osijek, in Slavonia, i tank schiacciano decine di auto nelle vie del centro, dimostrando una brutalità gratuita che suscita forti proteste.
L’incertezza regna sovrana con notizie confuse e contraddittorie. Il generale Adžić rincara le minacce, accusando gli sloveni di essere “ipocriti e senza scrupoli” e di avvalersi della complicità dell’Austria per il controllo delle frontiere, ma ormai è più patetico che minaccioso, tanto che l’Armata federale in serata fa rientrare parte dei cingolati. La tregua regge a partire dalle 21,00.

I rappresentanti vaticani presso la Csce dichiarano, a proposito dell’unità della Jugoslavia, che tale unità dipende dall’adesione a valori comuni, men­tre va esclusa un’unità che non fosse altro che il risultato dell’azione delle forze armate: “Non è possibile e non si devono pertanto soffocare i diritti e le legittime aspirazioni dei popoli”.

sabato 2 luglio 2016

Slovenia, i fatti del 2 luglio 1991

2 luglio – Un giorno disastroso per la Jna. La colonna di carri armati, inviata per liberare il reparto bloccato vicino a Krško, si ritrova sotto attacco di unità slovene, che la costringono alla resa. La Teritorialna slovena attacca con successo le varie dogane, facendo prigionieri un buon numero di soldati federali. Duri combattimenti a Fernetti, il più importante valico tra Italia e Slovenia: non ci sono vittime. Negli scontri tra To slovena e Jna sono coin­volti camionisti stranieri di passaggio.
Un MiG supera il muro del suono sulla verticale di Lubiana, la contrae­rea spara. In realtà non vi è nessun attacco, ma i giornali di tutto il mondo titolano Allarme aereo a Lubiana: esempio di simulazione di guerra a fini mediatici. Altri carri armati entrano in Slovenia, provenendo dalla Croazia. Prove di forza dei carri federali all’uscita dalle caserme croate.

Alle 21,00, il presidente sloveno annuncia un cessate-il-fuoco unilaterale, respinto dal comando della Jna, che giura di “riprendere il controllo” e di “abbattere la resistenza” slovena. La Jna non accetta la sconfitta sul campo. Il generale Adžić, serbo, un “falco”, tenta un colpo di coda e, scavalcando il Presidium, dichiara: “L’Armata federale si ritiene in stato di guerra”, accu­sando di alto tradimento i dirigenti sloveni, meritevoli di una punizione: “Staneremo dai loro nascondigli quelli che spingono la Slovenia contro la Jugo­slavia”. Lo sloveno Kolšek è destituito per “incapacità”. I soldati federali in partenza per la Slovenia sono salutati con giubilo dalla popolazione serba, le donne offrono acqua, le ragazze mandano baci. Solo l’arrivo di osservatori internazionali potrebbe garantire una tregua.

venerdì 1 luglio 2016

Guerra in Slovenia, il 1 luglio 1991

1° luglio – Un carico di munizioni della Jna a Črni Vrh–Montenero d’I­dria è distrutto da un’esplosione, danneggiando parte del paese. Una co­lonna della Jna si ritira dalla posizione troppo esposta di Medvedjek e si dirige vicino al confine croato. Incappa in un blocco vicino a Krško ed è circondata, ma rifiuta di arrendersi, probabilmente sperando nell’aiuto di una colonna di soccorso.
Il ministro della Difesa Kadijević informa il governo federale che il piano della Jna, un’operazione limitata a controllare i punti di confine della Slove­nia, è fallito. È il momento di mettere in atto il “piano B”: un’invasione su ampia scala, la proclamazione della legge marziale e l’arresto di tutti i dirigenti sloveni. Jović pone il veto al “piano B”, affermando: “Mi è chiaro che la Slove­nia se ne va ed è inutile scatenare una guerra. Ci resta una sola cosa da fare, di­fendere i territori abitati dai serbi di Croazia, che vogliono restare in Jugoslavia”.
Il capo di Stato maggiore della Jna, generale Adžić, è furioso e dichiara: “Gli organi federali ci ostacolano di continuo, richiedendo dei negoziati mentre gli sloveni ci stanno attaccando con tutti i mezzi”. L’esercito registra defezioni a migliaia, ognuno rientra nelle rispettive repubbliche, la Narodna armija sembra allo sbando, sconfitta sul suo campo fondante: la multietnicità.
Grazie alla mediazione della trojka Cee, il croato Mesić diventa presidente della Federazione jugoslava. La Jna dovrebbe rientrare nelle caserme, i pri­gionieri rilasciati, le frontiere riaperte, ma nessuno si fida dell’altro.

Appello del Gruppo di donne di Belgrado contro la guerra in Slovenia: chiedono che l’esercito federale si ritiri immediatamente e i soldati tornino a casa. Genitori, per la maggior parte madri, dei soldati di leva dell’Armata federale invadono il parlamento a Belgrado per protesta contro la mobilita­zione dei figli, contro una guerra fratricida e per il ritorno dei loro figli che prestano servizio in Slovenia.