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giovedì 12 gennaio 2017

“Il sogno fasullo”, illusioni e delusioni dell’immigrazione

Amadou Kane, emigrante senegalese, attraverso il racconto del suo viaggio pieno di peripezie diventato libro a quattro mani scritto insieme a Giulio garau, dal titolo Il sogno fasullo. Memorie di un raffinato senegalese in Italia svela i retroscena della migrazione verso il nostro Paese e denuncia come le tante bugie e leggende diffuse tra i giovani africani, illusi e spinti a raggiungere un paradiso che non esiste, finendo vittime dei racket. Dopo anni di lotte, conquiste e delusioni, Amadou capisce che il luogo della felicità non è la tanto decantata Italia ma laddove si trovano le sue radici, nello stesso Senegal da cui è voluto andare via. In questo libro vuole raccontare tutta la verità ai suoi fratelli per scoraggiare coloro che vengono a cercare di realizzare invano sogni in Europa.

Qui riportiamo un brano tratto dal libro, molto intenso, con il duro incontro con la realtà.

“Dopo circa un quarto d’ora il bus è arrivato alla nostra fermata, un grande centro commerciale con un supermercato. Abbiamo fatto un piccolo tratto di strada a piedi e ci siamo diretti verso il supermercato. Ero molto agitato, non capivo cosa stesse succedendo. Ed è stato a quel punto che ho notato, nel parcheggio esterno, un sacco di ragazzi neri, tutti senegalesi. “Che cosa ci fanno qui?”, ho chiesto a Cheikh. “Stanno lavorando” mi ha risposto, e subito l’ho incalzato: “Ma che lavoro fan­no?”. “Semplice, vendono”, mi ha risposto con una naturalezza che mi ha lasciato senza parole. Continuavo a non capire e non mi è venuto il minimo sospetto o il pensiero che quelle persone sarebbero diventate i miei “colleghi”.
Calze “filo di Scozia”, maglie, abbigliamento intimo, mutande, ca­nottiere, ma anche i rotoli di sacchi neri dell’immondizia, che allora andavano a ruba. Due o tre volte alla settimana ci pensava Mauro, il grossista, a rifornire tutti di merce. Ero confuso, fremevo per sapere che tipo di lavoro mi aspettasse ed è stato a quel punto che ci siamo fermati e Cheikh mi ha detto di aspettarlo un momento. È tornato poco dopo con una grande scatola di cartone con dentro alcune cose che non riu­scivo a distinguere poi, con aria solenne, si è fermato davanti a me per parlarmi. “Fratello, oggi inizierai a lavorare”. C’è stato un interminabile silenzio. Io stavo iniziando a tremare tutto e con un soffio di voce gli ho chiesto: “Ma qual è il lavoro…?”. “Questo”, ha risposto indicando la scatola, stupito che non avessi già capito. “Ti ho già preso la merce, è dentro la scatola; tu la devi solo sistemare, esporla come fosse in vetrina”. Ero letteralmente paralizzato. Ho trovato l’energia residua dentro di me per replicare: “Ma scherzi?”. “No, no assolutamente! Tu farai come loro, devi metterti a vendere…”.
Faceva molto freddo e l’atmosfera era densa come non mai. “Ascolta – ha ripreso Cheikh con un tono di voce più morbido – qui ci sono le calze, poi ci sono le maglie, le mutande e le canottiere, tutto in tre paia. A fianco ci sono i sacchetti delle immondizie, un pacco da trenta. Ri­cordati sempre queste parole: ‘Diecimila lire’. Non serve nemmeno che la pronunci per intero, basta ‘dieci’, e rispondi così per ogni cosa che ti chiedono. Oltre a ‘dieci’ devi tenere bene a mente altre due parole: ‘grazie’ e ‘prego’. Devi essere molto svelto però: quando vedi una persona arrivare devi corrergli incontro e prima di tutto devi dire ‘prego’” .
Cheikh non se n’era accorto, ma in quel momento la terra è franata improvvisamente sotto i miei piedi. Ho smesso di tremare e mi è sem­brato di sprofondare mentre attorno a me si faceva buio. Non avevo più parole, la voce mi si era spenta in gola. Ho cercato di guardarlo negli occhi incredulo, ho dato uno sguardo alla scatola e alla fine ho sperato di trovarmi dentro uno dei miei incubi. Ma quando ho provato a ri­svegliarmi strizzando gli occhi ho capito che quella era la realtà. Fuori c’era un freddo tremendo, eravamo in pieno gennaio; le lacrime hanno iniziato a sgorgare dai miei occhi e non hanno fatto nemmeno in tempo a scendere sulle guance che erano già quasi gelate.

Ho guardato Cheikh che mi osservava sconcertato con quel muso nero incorniciato dai riccioli rasta e ho trovato la forza per dire solo: “Va bene, grazie”. Alla fine, lui mi aveva portato qui e aveva cercato, alla sua manie­ra, di mettermi nelle condizioni di lavorare. Ero debolissimo, non stavo nemmeno in piedi e mi sono seduto. “È quello che facciamo tutti noi”, ha detto cercando di spiegarmi cosa stesse succedendo e per dissipare il mio stupore. “No, non preoccuparti… non è per te, è una cosa dentro di me…”, ho risposto.”