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martedì 28 febbraio 2017

Un giornalista turco-tedesco arrestato in Turchia: la libertà d’espressione in Turchia nel Rapporto 2016-2017 di Amnesty International

Dal 14 febbraio è detenuto nelle carceri turche il reporter Deniz Yucel, corrispondente del giornale Die Welt. Yucel, con doppia nazionalità turco-tedesca, è accusato di "propaganda terroristica" e "istigazione all'odio" nell'ambito di un'inchiesta sul collettivo di hacker turchi RedHack, che diffusero alcune email di Berat Albayrak, ministro dell'Energia e genero del presidente Recep Tayyip Erdogan, su cui il giornalista ha scritto alcuni articoli. 
Sul tema della libertà d’espressione in Turchia segnaliamo il focus del Rapporto 2016-2017. La situazione dei diritti umani nel mondo di Amnesty International. Il testo può essere ripreso dalla stampa citando la fonte © Infinito edizioni 2017 – www.infinitoedizioni.it
“La situazione della libertà d’espressione è fortemente peggiorata nel corso dell’anno. Dopo la dichiarazione dello stato di emergenza, 118 giornalisti sono stati rinviati in cu­stodia preprocessuale e 184 organi d’informazione sono stati chiusi arbitrariamente e de­finitivamente, in base a decreti esecutivi, con gravi limitazioni imposte alle testate vicine all’opposizione2. Le persone che esprimevano dissenso, soprattutto in relazione alla que­stione curda, sono state minacciate di violenza e di azioni penali. La censura su Internet è aumentata. A novembre, almeno 375 Ngo, tra cui gruppi per i diritti delle donne, asso­ciazioni di avvocati e organizzazioni umanitarie, sono state chiuse con decreti esecutivi.
A marzo, un tribunale della capitale Ankara ha nominato un fiduciario per il gruppo di comunicazione Zaman, vicino all’opposizione, in relazione a un’indagine in corso per accuse di terrorismo. Dopo che la polizia ha assaltato gli uffici di Zaman, ai giornali e ai canali televisivi del gruppo è stata imposta una linea editoriale filogovernativa. A luglio, tutte le testate di Zaman sono state definitivamente chiuse, insieme ad altri mezzi di comunicazione legati a Gülen. Sono state chiuse anche le nuove testate, cre­ate dopo che il governo era subentrato nella gestione del gruppo Zaman.
A maggio, il caporedattore del quotidiano Cumhuriyet, Can Dündar, e il rappresentante del giornale ad Ankara, Erdem Gül, sono stati riconosciuti colpevoli di aver “rivelato se­greti di stato” e condannati entrambi a cinque anni e 10 mesi di reclusione per la pub­blicazione di articoli in cui si affermava che le autorità turche avevano tentato di spedire segretamente armi ai gruppi armati d’opposizione in Siria. Il governo aveva affermato che i camion stavano trasportando rifornimenti umanitari per i turkmeni. A fine anno, il caso era ancora in attesa di appello. A ottobre, altri 10 giornalisti sono stati detenuti in custodia preprocessuale per aver commesso reati per conto della Fetö e del Pkk.
Ad agosto, la polizia ha chiuso gli uffici di Özgür Gündem, il principale quotidiano curdo, in base a un’ordinanza di tribunale che ne imponeva la chiusura a causa d’inda­gini in corso per terrorismo, una sanzione non prevista dalla legge. Due redattori e due giornalisti sono stati arrestati in attesa di giudizio e incriminati per reati di terrorismo. Tre sono stati rilasciati a dicembre, mentre il redattore İnan Kızıkaya è rimasto in de­tenzione.3 A ottobre, con un decreto esecutivo, Özgür Gündem è stato definitivamente chiuso, insieme a tutti i principali organi di stampa nazionali filocurdi.
Coloro che avevano firmato la petizione sottoscritta a gennaio 2016 dagli Accademici per la pace, che chiedeva di riprendere i negoziati di pace e di riconoscere le richieste del movimento politico curdo, sono stati sottoposti a minacce di violenza, indagini am­ministrative e procedimenti penali. Ad aprile, quattro firmatari sono stati detenuti fino all’udienza in tribunale; sono quindi stati liberati ma non assolti4. Alla fine dell’anno, 490 accademici erano sotto indagine amministrativa e 142 erano stati licenziati. Dal colpo di stato, oltre 1.100 dei firmatari erano formalmente sotto indagine penale.
È aumentata la censura su Internet; le autorità hanno emesso ordini, approvati dalla magistratura senza discutere, per ritirare o bloccare contenuti, inclusi siti web e ac­count di social network, provvedimenti contro i quali non esisteva alcuna possibilità effettiva di ricorso. A ottobre, le autorità hanno interrotto i servizi Internet nel sud-est del paese e si sono impegnate nella limitazione dei vari servizi di social network.”
Il libro:
Titolo: Rapporto 2016-2017. La situazione dei diritti umani nel mondo
Autore: Amnesty International
€ 19,90 – pag. 624

L’Autore
Amnesty International è un’organizzazione non governativa indipendente, una comunità globale di difensori dei diritti umani che si riconosce nei princìpi della solidarietà internazionale. L’associazione è stata fondata nel 1961 dall’avvocato inglese Peter Benenson, che lanciò una campagna per l’amnistia dei prigionieri di coscienza. La visione di Amnesty International è quella di un mondo in cui a ogni persona siano riconosciuti tutti i diritti umani sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e da altri atti sulla protezione internazionale dei diritti umani.
Per maggiori informazioni: http://www.amnesty.it

mercoledì 22 febbraio 2017

Rapporto 2016-2017. La situazione dei diritti umani nel mondo - Amnesty International

Infinito edizioni – novità in libreria

Rapporto 2016-2017. La situazione dei diritti umani nel mondo
(€ 19,90 – pag. 624)

di Amnesty International
Introduzione di Salil Shetty

Il Rapporto di Amnesty International è una lettura fondamentale per chi prende decisioni politiche, per gli attivisti e per chiunque sia interessato ai diritti umani

Il Rapporto 2016-2017 di Amnesty International documenta la situazione dei diritti umani in 159 paesi e territori durante il 2016. 
Per milioni di persone, il 2016 è stato un anno di continua sofferenza e paura, poiché governi e gruppi armati hanno compiuto violazioni dei diritti umani nei modi più diversi. 
Un gran numero di persone ha continuato a fuggire da conflitti e repressione in molte zone del mondo. Tra i problemi maggiormente diffusi, il Rapporto documenta il costante ricorso alla tortura e ad altri maltrattamenti, la mancata tutela dei diritti sessuali e riproduttivi, la sorveglianza da parte dei governi e la cultura dell’impunità per i crimini del passato.
Questo Rapporto testimonia la determinazione delle persone che hanno agito per il rispetto dei diritti umani in tutto il mondo e che hanno dimostrato solidarietà verso coloro i cui diritti sono stati calpestati.
Il Rapporto descrive anche le principali preoccupazioni e richieste di Amnesty International. Mostra inoltre come il movimento dei diritti umani stia crescendo sempre più forte e come la speranza che fa nascere in milioni di persone rimanga una potente spinta in favore del cambiamento.
“Mentre iniziamo il 2017, il mondo si sente insicuro e impaurito davanti a un futuro tanto incerto. Ma è proprio in questi momenti che abbiamo bisogno di voci coraggiose, di eroi comuni che si oppongano all’ingiustizia e alla repressione. Nessuno può sfidare il mondo intero ma ognuno di noi può cambiare il proprio mondo. Tutti possono prendere posizione contro la disumanizzazione, agendo a livello locale per riconoscere la dignità e i diritti uguali e inalienabili di tutti, gettando così le basi per la libertà e la giustizia nel mondo. Il 2017 ha bisogno di eroi ed eroine dei diritti umani”. (Salil Shetty, Segretario generale di Amnesty International)

Il libro:
Titolo: Rapporto 2016-2017. La situazione dei diritti umani nel mondo
Autore: Amnesty International
€ 19,90 – pag. 624

L’Autore
Amnesty International è un’organizzazione non governativa indipendente, una comunità globale di difensori dei diritti umani che si riconosce nei princìpi della solidarietà internazionale. L’associazione è stata fondata nel 1961 dall’avvocato inglese Peter Benenson, che lanciò una campagna per l’amnistia dei prigionieri di coscienza. La visione di Amnesty International è quella di un mondo in cui a ogni persona siano riconosciuti tutti i diritti umani sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e da altri atti sulla protezione internazionale dei diritti umani.
Per maggiori informazioni: http://www.amnesty.it

martedì 21 febbraio 2017

Ospedali psichiatrici giudiziari, il ministro Lorenzin annuncia la chiusura definitiva

"Oggi è una giornata storica perché siamo arrivati al raggiungimento di questo fondamentale obiettivo che è il superamento definitivo degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), ormai realizzato in tutta Italia: abbiamo infatti ancora solo sei pazienti che saranno trasferiti a giorni dall'ultimo Opg rimasto che è quello di Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia". Lo ha affermato ieri il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, in un incontro per fare il punto sulla situazione degli Opg, insieme a Franco Corleone, commissario unico nominato dal Governo per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Dunque, ha detto Lorenzin nella dichiarazione ripresa dall’Ansa, "possiamo dire che il lavoro del commissariamento è finito e che siamo riusciti a realizzare questo grande traguardo, nei diritti umani e nel percorso della salute mentale".
Il ministro Lorenzin ha continuato spiegando la decisione "di continuare a mantenere attiva una cabina di regia e di monitoraggio della riforma ed eventualmente anche di procedere successivamente con dei passi che riguardano più aspetti attinenti alla Giustizia che alla Sanità", decisione apprezzata dal Comitato StopOpg.
Gli Opg chiusi in tutta Italia, incluso quello di Barcellona Pozzo di Gotto, sono sei e al loro interno erano presenti un totale di 1.500 pazienti. Al momento sono attive trenta Rems nelle regioni ma, a regime, le Rems arriveranno a 32.
È una "giornata importante. - ha detto Franco Corleone, il cui mandato è scaduto proprio ieri. La legge Basaglia e la chiusura del manicomio civile sono stati dei passi fondamentale ma era rimasto scoperto ancora il buco nero dell'Opg o manicomio criminale. Con la legge 81 si è affrontata anche questa questione molto difficile e si è trovata una soluzione senza affrontare il problema del codice penale e della questione dell'imputabilità". 

Un passo di civiltà e rispetto, nel segno del lavoro e del ricordo del nostro autore Angelo Lallo.

domenica 19 febbraio 2017

19 febbraio 2014, la scomparsa di Angelo Lallo

Sono già passati tre anni dalla scomparsa di Angelo Lallo, l'amico scrittore dal grande cuore la cui ultima fatica è stato lo splendido "Mala dies”, sul tema degli ospedali psichiatrici giudiziari nel nostro Paese.
Angelo ha dedicato la sua vita alla famiglia, al lavoro duro, prima in fabbrica poi sui libri e a scuola, per i suoi ragazzi. Ha scoperto già grande la sua passione per la ricerca storica e ha firmato alcuni libri che sono e saranno pietre miliari della ricerca storica applicata alla psichiatria. Ha firmato molti titoli, e per Infinito edizioni ha pubblicato due capolavori che s'intitolano "Il sentiero dei tulipani" e "Mala dies".
Ci fa piacere ricordarlo, regalando il primo capitolo de “Il sentiero dei tulipani”, il libro che lo ha visto coniare un neologismo, psiconazionalismo, di cui si parlerà molto in futuro.

Cattivi e pessimi

Il delirio di K, fulminante e senza equivoci. Il suo sogno – o la sua ossessione – era di riconvertire Sarajevo in un’immensa istituzione totale. La terra della convivenza etnica e della tolleranza religiosa doveva essere umiliata. Il suo folle progetto era disegnato in modo da disperdere la secolare diversità che si respirava nella celebre porta carovaniera dei Balcani, l’antico borgo di Saraj-ovasi. Il segnale che suonava come punizione verso la città, in realtà diventava un monito indirizzato alle terre balcaniche e K da tempo minacciava i bosniaci a non intraprendere la stessa strada della Slovenia e della Croazia perché il prezzo da pagare era l’annientamento, la sparizione dei musulmani di Bosnia.
Incurante dei moniti di K – un megalomane che da tempo esternava folli dichiarazioni separatiste – il Parlamento bosniaco votò a maggioranza in una drammatica seduta del 15 ottobre 1991 una dichiarazione d’intenti che definiva “la Bosnia Erzegovina uno stato democratico e sovrano, di cittadini di pari diritti, popoli della Bosnia Erzegovina, musulmani, serbi, croati e appartenenti ad altri popoli e nazionalità che in essa vivono”.
Il massimo del pronunciamento democratico del nascente Stato bosniaco aveva colpito il cuore gonfio di rancore di K. Nel pomeriggio dello stesso giorno, a poche ore dalla votazione, migliaia di miliziani dotati di artiglieria ad alta precisione si appostarono tra le montagne che circondano Sarajevo con le armi rivolte verso “l’altra” popolazione. Non c’era più scampo per gli abitanti della città. Sarajevo, tenuta da quel momento in poi in ostaggio per 1.350 giorni nel più lungo assedio della storia contemporanea, fu accuratamente gestita con le armi dai miliziani cetnici con le regole ferree di un’istituzione totale.
La città era sotto il controllo dei cecchini che sparavano sulla gente inerme, premiati con un pugno di marchi per ogni sagoma vivente colpita. La regola d’ingaggio consisteva nello sparare alle persone che correvano sullo Sniper Alley, l’arteria stradale principale di Sarajevo. Non era un gioco da baraccone, ma una precisa strategia di terrore, di punizione permanente, di vendetta. La selezione dei cecchini si basava su dei parametri semplici: odiare visceralmente i musulmani e saper colpire un barattolo con un fucile da almeno cento metri di distanza. In cambio del loro odio i cecchini a fine giornata si sarebbero portati a casa un bel gruzzolo. Alla selezione si presentarono in tanti e, con grande soddisfazione dei selezionatori, si proposero anche donne stranamente più incattivite dei maschi. L’ignobile reality show aveva lo scopo di tenere sotto pressione la gente di Sarajevo, farla convivere con la paura, devastare e sconvolgere la sua quotidianità. Nulla doveva essere come prima. Portare a scuola i bambini, andare a fare la spesa, passeggiare, erano fasi della vita da cancellare: strategia perfetta per incutere terrore, perché non era semplice nascondersi dietro i tank per andare a prendere l’acqua o calcolare sempre – metro per metro – le angolazioni di sparo. Le regole d’ingaggio dei cecchini prevedevano di colpire i luoghi pubblici, quelli più affollati. I tram e gli autobus diventarono trappole mortali, e il terrore che si respirava su quei mezzi raggiungeva momenti d’isteria pazzesca quando i proiettili arrivavano a segno: sangue dappertutto, indistinto, la morte che colpiva così, a caso. E quando si voleva centrare il bersaglio con ancora più precisione, senza possibilità di errore, si spararono colpi di mortaio sulla gente che affollava le bancarelle, come al mercato di via Vase Miškina. Terribile e perverso disegno tracciato con la matita di architetti psicopatici che hanno costruito con grande mestiere un muro di paura e di terrore.
K conosceva le regole della psicologia di massa perché era uno psichiatra, medico in servizio attivo nella clinica psichiatrica dell’ospedale Koševo di Sarajevo. Nelle riunioni settimanali partecipava come tutti alle discussioni senza dare segnali di inquietudine, mai un problema con qualche collega o con il primario. Non era particolarmente brillante nella prassi quotidiana, era uno dei tanti mestieranti fortunati che si era trovato al punto giusto, nel momento giusto. Forse era il suo doppio quando prendeva parte alle feste di compleanno con tutti gli altri, improvvisando, cantando, recitando. Ma nel suo cuore covava il rancore verso la cricca culturale di Sarajevo che non lo accettava come “grande poeta contemporaneo”, secondo la sua stessa definizione. Molti lo accusavano di essere un doppiogiochista, al soldo dei servizi segreti, arricchito in poco tempo forse – si diceva – con i soldi del contrabbando e della delazione. K non lo poteva sopportare, non poteva accettare che quattro intellettuali con la puzza sotto il naso stroncassero le sue poesie, addirittura eliminando il suo nome dalle rose dei premi letterari di Sarajevo. Girava con ossessione tutti i luoghi di aggregazione giovanile e quando scopriva qualche postaccio, non convinceva neanche una persona ad ascoltare i suoi versi. Solo poche volte in privato gli era sfuggito il suo vero pensiero, perché era convinto che dietro all’accantonamento sociale ci fosse odio etnico, in qualche modo legato alla sua provenienza montenegrina.
K decise di chiudere con il passato, e in un giornata autunnale di inizio Anni ‘90 non si presentò al lavoro, nessuna telefonata di rito, nessun avviso al primario o ai suoi colleghi, gli effetti abbandonati in un armadietto della clinica psichiatrica. K era introvabile; veniva segnalato in Serbia, in Montenegro o in Macedonia, invece era a Pale, pieno di soldi accumulati con il contrabbando di benzina e alcol, a pochissima distanza da Sarajevo, circondato dai miliziani, in attesa di dare una lezione a chi non aveva creduto alle sue parole e al suo talento. La polizia internazionale poteva arrestarlo come e quando voleva, ma il temporaggiamento – chissà, forse contrattato – ha deciso i destini della comunità bosniaca. Quando K, ormai presidente del Partito democratico serbo (Srpska Demokratska Stranka  – Sds) nelle elezioni del dicembre 1990 ottenne 72 seggi, i suoi colleghi psichiatri rimasero sbigottiti perché l’uomo non sapeva gestire neanche un reparto ospedaliero, figurarsi manovrare un partito nazionalista. Grave sottovalutazione, perché K aveva la copertura di Belgrado, che rimestava nel sottobosco dei tecnici della mente, criminali comuni, faccendieri legati alla mafia internazionale, disposti a tutto pur di arricchirsi.
K ricomparve sulla scena con il nome esteso, Radovan Karadžić, firmando la prima granata sparata su Sarajevo dalle colline verso la zona dove era ubicata la sede del suo lavoro, incurante di amici e pazienti, svelando la vera natura di uomo fragile, rancoroso e manipolato. La clinica psichiatrica, diventato il luogo di ricovero più affollato della città, fu bombardata per più di trenta volte; stranamente l’ospedale in quel periodo non aveva pazienti con manie di suicidio perché a Sarajevo, singolarmente, la sindrome da suicidio era sparita.
Questo è il breve incipit dell’assedio di Sarajevo, ultima tragedia del Novecento, ma i fatti di Bosnia sono avvenimenti che molti tendono a definire come-se-fossero-veri o semplicemente falsi. Il tentativo di falsificare la realtà incontrovertibile utilizzando il mito, la storia popolare, i mass media, pur di dimostrare che in Bosnia c’è stato un evento indecifrabile o semplicemente uno scontro tribale tra popolazioni condannate dal loro inconscio collettivo, è stata un’operazione multipla di depistaggio nella ricerca delle responsabilità del conflitto. Di quella semplificazione storica sono rimaste le macerie; la divisione artificiosa delle popolazioni balcaniche tra “cattivi e pessimi” ha creato un colpevole ritardo di definizione, difficilmente colmabile in un Paese ferito e diviso. A tre lustri dalla fine del conflitto in Bosnia Erzegovina e dai nefasti accordi di Dayton, il tempo si è fermato e il popolo bosniaco attende ancora risposte che tardano a venire. Perché Sarajevo è stata assediata? Per quale motivo l’Onu non è intervenuta a Srebrenica, lasciando Ratko Mladić libero di giustiziare 10.701 musulmani bosniaci con un’operazione in stile nazista, con le ruspe che scavavano le fosse comuni sotto gli occhi di ragazzi e vecchi inermi, senza possibilità di difendersi? Perché a Dayton si è calato il sipario allestendo uno Stato frammentato, ratificando in questo modo la pulizia etnica e il sogno dei nazionalisti serbi, croati e islamici? Pur di chiudere in fretta quella che per loro era un’inutile perdita di tempo e di soldi, Usa e Paesi europei hanno accettato l’imposizione della divisione del territorio concedendo poco più della metà alla Federacija Bosnia Erzegovina croato-musulmana, svelando il poco interesse per i “miserabili” dei Balcani, e hanno permesso la fondazione della Republika Srpska – nata sul genocidio – mettendo sullo stesso piano aggrediti e aggressori. La differenza è nei numeri, in una misera differenza territoriale del 2 per cento elargita a chi ha subito, tra tante altre tragedie, il genocidio di Srebrenica e l’assedio di Sarajevo.
Cattivi e pessimi è un concetto frutto non solo di un’invenzione giornalistica, ma il motivo di fondo delle agenzie politiche internazionali che hanno immesso in circuito l’idea capziosa che in quelle terre tutti sono colpevoli nella stessa maniera, non ci sono stati aggressori e vittime, assalitori e assaliti, anzi non c’è stata neanche l’aggressione. Ma è un paradigma fragile, in linea con la preparazione autoassolutoria del non intervento da collegare ai pregiudizi riservati alle popolazioni balcaniche fondati sull’odio atavico, l’abitudine secolare dell’homo balcanicus a uccidere, il fanatismo etnico, l’intolleranza religiosa, l’ignoranza e la miseria. Qui invece si discute della storia di un popolo che ha fatto della pacifica convivenza un dato distintivo e che per tutta risposta è stato fatto a pezzi scientificamente dagli interessi della politica nazionalista di Slobodan Milošević, di Franjo Tuđman e di Alija Izetbegović.
I modelli di discussione invece devono essere dissonanti in quanto si è catapultati in una dimensione diversa da qualsiasi altro territorio europeo. Gli avvenimenti vanno analizzati con attenzione partendo dal dato di non avere una condivisione storica degli eventi. Se i documenti e le fonti storiche non sono dei fenomeni oggettivi e sono dipendenti da chi li produce, in Bosnia Erzegovina sono ancora meno oggettivi per la semplice ragione che serbi, croati e bosniaci hanno verità storiche contrapposte e inconciliabili.
I vincitori hanno sempre scritto la Storia, ma in Bosnia Erzegovina questo è impossibile perché qui non ci sono stati vincitori. Un esempio è il difficile dibattito storico sull’operazione Oluja: l’intervento militare croato denominato Tempesta – appoggiato nel 1995 dal Pentagono – che produsse, nella Krajina in zona croata, l’assassinio di centinaia di civili serbi e l’allontanamento in pochissime ore di duecentomila serbi dagli ospedali, dalle scuole, dalle loro case saccheggiate e bruciate. Una moltitudine di persone inermi che in poche ore ha disfatto ogni storia individuale, lasciando il proprio mondo per il sol fatto di avere cognomi serbi e abitare in territori rivendicati dalla Croazia. Ancora oggi queste popolazioni vivono disperse, senza status internazionale, non accettate dalla Serbia perché corpi separati, semplicemente dimenticati. Zagabria esalta la liberazione della Krajina dagli “altri”, invece Belgrado qualifica Oluja come crimine di guerra e pulizia etnica. In questo caso non c’è alcuna possibilità di interpretazione anche per i più incalliti negazionisti: la popolazione serba delle Krajine è stata oggetto di pulizia etnica da parte dei croati e questo è un fatto storico, incontrovertibile, giudicato come crimine di guerra dal Tribunale penale internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia (Tpi). L’opinione pubblica deve porre domande, ascoltare, decifrare le testimonianze, leggere con attenzione i dati e difendere l’assioma che una realtà storica non si comprende mai in modo migliore che tramite la ricerca delle sue cause. Tuttavia non possiamo nascondere che nello scenario della guerra in Bosnia è difficile seguire il percorso che racconta il conflitto come terminale, quasi scontato, di controversie religiose, economiche ed etniche. Non possiamo seguire tesi precostituite perché è ragionevole escludere come principale causa del conflitto controversie religiose. In definitiva, proprio la particolarità dell’esistenza delle chiese ebraiche, cattoliche, ortodosse e musulmane, raramente riscontrabile in altri Paesi, ha salvato la Bosnia dalla completa distruzione. Basta fare un giro per Sarajevo per convincersi di queste tesi: in poche centinaia di metri ci si imbatte nella chiesta ortodossa e in quella cattolica, nella sinagoga o nella medresa, nella splendente moschea di Gazi Husrev-beg e, appena poco distante dal centro, nel convento francescano.
Tuttavia non possiamo nascondere che alcuni settori estremisti ortodossi e cattolici delle chiese serbe e croate hanno foraggiato i criminali di guerra con corpose sovvenzioni, con la giustificazione di fermare la cospirazione islamica. Pretesti. Secondo stime ufficiali dei primi Anni ’90, i musulmani praticanti in Bosnia Erzegovina superavano di poco il 17 per cento, in realtà la percentuale era ancora più bassa perché i calcoli consideravano anche coloro che osservavano solo le tradizioni culturali e con questi numeri non si poteva sovvertire neanche un quartiere di Sarajevo. È una tesi poi clamorosamente smentita dal genocidio di Srebrenica, poiché dopo quel massacro non c’è stato alcun attentato di matrice musulmana, né in Bosnia né in altri Paesi, smentendo lo spettro sempre evocato del “pericolo islamico”.
La Bosnia è sempre stata sull’agenda delle grandi potenze perché da un punto di vista geopolitico è un Paese strategico nel cuore dell’Europa orientale; il suo territorio è stato depredato di quasi tutte le risorse naturali (zinco, carbone, minerali di ferro, manganese) compreso l’argento del sottosuolo di Srebrenica (Argentaria per i latini), ormai quasi esaurito. La Bosnia Erzegovina ha poi un’enorme ricchezza nel sottosuolo (acqua e petrolio) assolutamente ancora vergine, pronta per il grande sfruttamento. Tra le motivazioni dello smembramento del Paese possono essere annoverate anche cause economiche e così molti passaggi politici oscuri delle grandi potenze potrebbero avere un senso.
I giochi pericolosi di Dayton si sono dispiegati nella spartizione del territorio bosniaco quando si è fatto attenzione ad assegnare alla Republika Srpska la parte di territorio ricca di foreste, legname, acqua e del petrolio eventualmente da estrarre. Evidentemente si stava ragionando a lungo termine, per quando le condizioni internazionali avrebbero permesso alla Republika Srpska di staccarsi dalla Bosnia con un minimo di autosufficienza economica formalizzando, con un plebiscito di voti, la secessione già scritta nelle pieghe degli accordi di Dayton.
Rileggendo vecchi articoli di giornali, la maggior parte dei giornalisti che si occupavano di Bosnia hanno accreditato nei loro reportage la storiella della guerra etnica nascondendo a loro stessi che il popolo bosniaco ha vissuto per secoli in un clima di convivenza con incroci etnici del 45 per cento della popolazione, con il risultato che quasi una famiglia su due era mista. Quando la Bosnia era su tutti i video del mondo, alcuni analisti davano informazioni su una guerra con contenuti affaristici, sociali e culturali; con lo scontro tra città e campagna nell’era della globalizzazione; per un profondo odio di classe delle campagne verso i ceti cittadini che vivevano nel benessere.
Un’altra tesi accreditata era un conflitto proclamato in nome dell’identità etnica e da fattori internazionali di geopolitica. Il riferimento in quest’ultimo caso era al disegno di smembramento della Jugoslavia con l’avallo di Paesi europei. Le prime due targhe diplomatiche della Croazia sono state della Germania e del Vaticano, i primi Stati a riconoscerne l’indipendenza; se per il Vaticano era quasi scontato riconoscere la Croazia perché abitata da un popolo di religione cattolica, per la Germania il riconoscimento fu un passo decisivo per rientrare da protagonista nello scacchiere balcanico. Tuttavia sono teorie che in realtà nascondono un’analisi storica debole, omologata sempre di più all’opinione pubblica occidentale – indistinta e inquadrata – che non è interessata a eventi che non provengano dai Paesi europei e americani. Sostiene Pedrag Matvejević che la memoria storica costituì una delle fonti fatali della guerra e della fine della Jugoslavia. Se questa è la guerra della vendetta e dell’odio, merita un approfondimento perché il logico finale è che si potrà raggiungere una reale pacificazione solo quando i libri scolastici avranno rielaborato le vicende del conflitto scrivendo una storia condivisa, a patto di slegare la memoria collettiva dalla memoria nazionalista, quella avvolta dall’identità etnica che produce l’ideologia nazionale. Ma attenzione che queste condizioni, sebbene pericolose, non producono crimini di guerra; l’idea spinoziana che sono i leader politici e militari a spingere una parte della popolazione a commettere crimini di guerra rimane ancora la più valida ed è una teoria che ha trovato realistica conferma nelle terre balcaniche.
Tuttavia in queste terre i leader politici avevano bisogno di teoria e prassi: nell’organigramma dei colpevoli che hanno distrutto la Bosnia, una parte rilevante spetta a quegli psichiatri e psicologi nazionalisti deviati, per professione abituati a governare le dinamiche della mente; biologi studiosi della purezza genetica; intellettuali che rovistavano nei cesti della storia per recuperare introvabili giustificazioni storiche e filosofiche alla pulizia etnica. Figure che affidarono il lavoro sporco non solo a Karadžić, Arkan, Mladić, il colonnello croato Ante Gotovina, ma anche a politici come Biljana Plavšic, biologa ed ex presidente della Republica Srpska.
La Plavšic si è consegnata spontaneamente nel 2001 al Tpi ammettendo le sue colpe politiche, negando tuttavia le accuse di genocidio e di crimini contro l’umanità. Nel 2003 è stata condannata singolarmente a soli undici anni di reclusione, da scontare in un confortevole carcere svedese dotato di sauna, pur in presenza di una sentenza che faceva riferimento al suo ruolo di cinghia di trasmissione tra i teorici del piano di pulizia etnica e gli esecutori materiali. La sentenza fa espresso riferimento “alla depravazione degli atti commessi, alla responsabilità di migliaia di morti e all’espulsione di migliaia di persone in condizioni di estrema brutalità”. Il 27 ottobre 2009 è stata liberata dopo soli sei anni di detenzione perché la legge svedese consente la scarcerazione dopo aver scontato i due terzi della pena. In realtà Biljana Plavšic non si è mai pentita e non ha mai abiurato le sue idee razziste nei confronti dei musulmani, considerati “inferiori e biologicamente di un valore minore rispetto al popolo serbo”.
Si tratta di criminali da considerare attori responsabili dei 1.350 giorni di assedio della città di Sarajevo; del massacro di 10.701 maschi musulmani a Srebrenica; di un totale di circa 258.000 morti (di cui 16.000 bambini), 20.000 disabili, 50.000 donne stuprate, 45.000 orfani di almeno un genitore; di 1.170.000 profughi di guerra e 1.250.000 rifugiati politici; di almeno un milione di mine e di ordigni bellici inesplosi ancora disseminati per tutta la Bosnia. Ecco, di tutto questo gli accordi di Dayton non fanno menzione, e i patti internazionali, ratificando la pulizia etnica, hanno cancellato con un atto amministrativo le responsabilità politiche e militari di Milošević, Tuđman e Izetbegović sulla guerra in generale, ma hanno lasciato sul terreno situazioni irrisolte che determinano l’instabilità permanente della Bosnia Erzegovina.
L’Occidente è intervenuto sui sintomi del conflitto tralasciando le cause, considerando la guerra un problema militare e non politico. L’idea di fondo “se tutti usano le armi-tutti sono colpevoli, deposte le armi i problemi si risolveranno d’incanto”, era solo un alibi. Ma decretando l’embargo delle armi si dispose la morte della Bosnia Erzegovina, che non si è potuta difendere. Sono temi oggi rimossi, tuttavia l’Occidente dovrà dare risposte sul perché non abbia saputo difendere non solo l’idea della convivenza multinazionale, ma il concetto della salvaguardia della persona e della dignità dell’uomo. Non ci sarà giustizia fino a quando non verranno date risposte alle madri di Srebrenica. Non ci sarà giustizia fino a quando non si porterà davanti al Tpi dell’Aja il generale Mladić, ma fino a quel momento siamo ancora autorizzati a considerare l’Onu in bancarotta morale. Per usare le parole dell’ex procuratrice capo, Carla Del Ponte, il muro di gomma è quasi impossibile da penetrare, ma pensare di costruire un Paese normale senza giustizia assicura futuri conflitti nell’instabile Stato bosniaco.
Questo libro è la prosecuzione del Il tunnel di Sarajevo, con l’aggiornamento di notizie che sono state “sottratte” con difficoltà alle istituzioni della Bosnia Erzegovina. In due anni di richieste non ci sono state riscontri ufficiali, e neanche gli intellettuali più aperti di Sarajevo hanno dato risposte, nonostante l’assicurazione del più totale anonimato. Nessuna notizia, nemmeno una. Storici, medici, analisti hanno replicato con un assordante silenzio, rafforzando l’idea che c’è più paura adesso che nell’immediato dopoguerra bosniaco. Se chiedevi di avere dati su Jovan Rašković la risposta con e-mail cortesi era che “è un personaggio minore, non vale la pena di argomentare su di lui, bastano i dati che si trovano su Wikipedia”.

Per fortuna documenti importanti sono arrivati tramite persone che per vie traverse hanno fornito notizie riservate, che permettono di approfondire tematiche ritenute pericolose dalle istituzioni bosniache. Si tratta di dati riguardanti problematiche sociali e psichiatriche che attestano la deriva di un Paese depresso; strategie di bonifica di un Paese pericolosamente insidiato ancora da un milione di mine; documenti non pubblici sulla condizione delle donne violentate. I racconti sono testimonianze di gente comune che ha vissuto direttamente gli eventi narrati. Il testo è completato con indispensabili notizie tratte da altri studi già pubblicati. Le fonti sono private, acquisite direttamente nel luogo di emanazioni dei documenti, citati in forma anonima per tutelare le persone che lavorano nelle cliniche psichiatriche, negli orfanotrofi, nelle strutture mediche, nei centri di ricerca sociale e storica, all’Istituto di statistica, all’Istituto federale di sanità.

venerdì 17 febbraio 2017

Giornata nazionale del gatto

La Giornata Nazionale del Gatto è stata istituita nel 1990 e ricorre il 17 febbraio. La giornalista gattofila Claudia Angeletti propose un referendum tra i lettori della rivista "Tuttogatto" per stabilire il giorno da dedicare a questi affascinanti animali spesso bistrattati. La proposta vincitrice, scelta dalla Angeletti e dalle colleghe della redazione cadde sulla proposta della signora Oriella Del Col che aveva scelto la data di oggi sia perché febbraio è il mese del segno zodiacale dell’Acquario, ossia degli spiriti liberi e anticonformisti come quelli dei gatti che non amano sentirsi oppressi da troppe regole, sia perché tra i detti popolari febbraio veniva definito “il mese dei gatti e delle streghe” collegando in tal modo gatti e magia. Passando alla numerologia il 17 nella nostra tradizione è sempre stato ritenuto un numero portatore di sventura, stessa fama che, in tempi passati, è stata riservata al gatto. Questo perché deriva dall'anagramma del numero romano che da XVII si trasforma in “VIXI” ovvero “sono vissuto”, di conseguenza “sono morto”. Non così per il gatto che, per leggenda, può affermare di essere vissuto vantando la possibilità di altre vite. E quindi il 17 diventa quindi “1 vita per 7 volte”!

Per tutti i nostri lettori amanti dei felini segnaliamo il libro di Lucilio Santoni dal titolo Fusa e parole, tra umanità e gatti

martedì 14 febbraio 2017

14 febbraio, One Billion Rising

14 febbraio, San Valentino, non è solo il giorno in cui gli innamorati che si scambiano, in un giro vorticoso di business e marketing, cioccolatini e fiori; il 14 febbraio è anche la data scelta dalla campagna One Billion Rising, movimento internazionale fondato dalla scrittrice e drammaturga statunitense Eve Ensler, per fermare la violenza di genere.
Oggi, in tutto il mondo, sulle note di “Break The Chain”, gli attivisti di One Billion Rising ribadiranno il proprio NO alla violenza su donne e bambine e l’urgenza di una rivoluzione che scardini mentalità e pratiche basate su abuso, omertà e sopraffazione.
Quest’anno la parola d’ordine di One Billion Rising è solidarietà: solidarietà contro lo sfruttamento delle donne, solidarietà contro il razzismo e il sessismo ancora presente in tutto il mondo. Infatti non c'è nulla di più potente della solidarietà globale – si legge sul sito della campagna – perché questa ci fa sentire più al sicuro nell'esprimere quello che pensiamo e ci dà più coraggio nell’intraprendere quello che ci impegniamo a fare. L’obiettivo diventa quindi ottenere l’attenzione, il coinvolgimento e l’impegno delle istituzioni affinché attuino forme di prevenzione e controllo oltre che politiche sociali ed educative per contrastare il fenomeno della violenza in ogni sua declinazione.

Per conoscere le tante iniziative organizzate per oggi fate clic a questo link.

mercoledì 8 febbraio 2017

#Burundi, l’allarme delle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti umani

Il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani, Michel Forst, dichiara, in un rapporto sulla repressione nei confronti dei difensori dei diritti umani in Burundi che “nel mese di ottobre, le autorità burundesi hanno radiato cinque delle principali organizzazioni non governative tra cui FORSC il Focode. Poche settimane più tardi la stessa sorte è toccata a Iteka e a Olufad”. La preoccupazione per il rappresentante delle Nazioni Unite si estende anche alla situazione dei rappresentanti e membri di queste organizzazioni. "Non bisogna dimenticare che i principali leader delle Ong sono fuggiti all'estero - continua Forst - a causa dell’aumento degli attacchi contro di loro. Quelli che restano sono minacciati. Ci sono arresti arbitrari, minacce contro di loro, e una vera e propria campagna denigratoria nei loro confronti”.
Michel Forst denuncia in particolare il nuovo testo di legge adottato dal Parlamento burundese lo scorso dicembre che rafforza in modo significativo il controllo esercitato da parte delle autorità sul lavoro delle Ong. “Il lavoro delle Ong dovrà essere preventivamente autorizzato dal ministero dell’Interno e a questo controllo politico si aggiunge anche un controllo economico”, continua Forst, infatti le Ong potranno ricevere finanziamenti e aiuti dall’estero solo dopo il nullaosta da parte del governo.
Tutte queste misure, conclude Forst, hanno un unico obiettivo, mettere a tacere la società civile in Burundi. 

Su questo Paese segnaliamo il libro di Maria Ollari dal titolo Burundi, la terra del dolore e del silenzio

martedì 7 febbraio 2017

7 febbraio, Safer Internet Day

Il Safer Internet Day (SID) è un evento che cade il 7 febbraio per sensibilizzare i più giovani a un uso consapevole del web e per spronare gli adulti ad educare i ragazzi in questa direzione. Il SID è promosso da INSAFE e INHOPE, due network internazionali impegnati proprio nel campo della sicurezza online, coordinato dai Safer Internet Centre (SIC) dei singoli Paesi, con il supporto della Commissione Europea.
Dal 2004, anno di istituzione del SID, il 7 febbraio è diventato un giorno di riferimento per tutti gli operatori del settore, le istituzioni le organizzazioni della società civile, arrivando a coinvolgere, oggi, oltre 100 Paesi.
"Be the change: unite for a better internet”  è lo slogan scelto per l’edizione del 2017, ed è  finalizzato a far riflettere i ragazzi non solo sull’uso consapevole della Rete, ma sul ruolo attivo e responsabile di ciascuno nella realizzazione di internet come luogo positivo e sicuro.
Anche in Italia ci saranno celebrazioni per il SID; ricordiamo l’iniziativa che si svolgerà a Roma, presso gli spazi espositivi della Caserma Guido Reni, in via Guido Reni, alla presenza di circa 1.000 studenti e dei rappresentanti di aziende, associazioni e istituzioni partecipanti all’Advisory Board di Generazioni Connesse
Nel nostro Paese oggi il Miur sostiene la prima Giornata Nazionale contro il bullismo e il cyberbullismo a scuola con la campagnaUn Nodo Blu - le scuole unite contro il bullismo", invitando i ragazzi e i docenti a indossare un fiocco di colore blu in segno di solidarietà alle vittime di questa piaga sociale.


Per riflettere su questo importante tema segnaliamo la lettura del libro di Luciano Garofano e Lorenzo Puglisi dal titolo La prepotenza invisibile. Bulli e cyberbulli: chi sono, come difendersi


lunedì 6 febbraio 2017

6 febbraio, Giornata Mondiale contro l’infibulazione e le mutilazioni genitali femminili

Le mutilazioni genitali femminili (MGF), sono pratiche tradizionali che vengono eseguite principalmente in 28 paesi dell'Africa sub-sahariana, per motivi non terapeutici. Tali pratiche ledono fortemente la salute psichica e fisica di bambine e donne che ne sono sottoposte.
L’Organizzazione mondiale per la Sanità ha stimato che siano già state sottoposte alla pratica 130 milioni di donne nel mondo, e che 3 milioni di bambine siano a rischio ogni anno. Il 6 febbraio si celebra in tutto il mondo la Giornata Mondiale contro l'infibulazione e le mutilazioni genitali femminili, che, purtroppo, conoscono una serie di declinazioni e specificità.
Tutte queste mutilazioni ledono gravemente sia la vita sessuale sia la salute delle donne, ed è a tutela di queste ultime che si adoperano i movimenti per l'emancipazione femminile, soprattutto in Africa, come ampiamente testimoniato da Amnesty International nel suo Rapporto Annuale.
Le mutilazioni genitali femminili hanno gravissime conseguenze sul piano psicofisico, sia immediate (con il rischio di emorragie a volte mortali, infezioni, shock), sia a lungo termine (cisti, difficoltà nei rapporti sessuali, rischio di morte nel parto sia per la madre sia per il nascituro).
Per ricordare questa data regaliamo un estratto dal libro di Emanuela Zuccalà dal titolo Donne che vorresti conoscere in cui si affronta questo tema.

Il grande albero protettore delle sue notti di paura sta ancora lì, a presidiare i sentieri dell’infanzia. Nice l’osserva con antica gratitu­dine, forse pensando che l’acacia sia l’unico personaggio rimasto inerte in questa savana ventosa nel sud del Kenya, sorvegliata dal Kilimanjaro che appare e scompare dietro la corsa delle nuvole.
Per spiegare la rivoluzione che dal villaggio masai di Nomayianat sta investendo l’intera area, Nice torna indietro di quindici anni, quando lei era una piccola orfana terrorizzata che sgattaiolava fuori da casa dello zio per scomparire sotto il grande albero nell’attesa che le luci del gior­no e l’eccitazione per la cerimonia facessero dimenticare la sua assenza nel conteggio delle bambine da “tagliare”. Per due volte s’è sottratta in questo modo all’emuatare, il sanguinoso e ineluttabile rito di passag­gio all’età adulta per le femmine, guidata solo da un istinto infantile impossibile da addomesticare: «Sapevo che avrei pianto e gridato, con­dannando la mia famiglia alla vergogna. Durante la circoncisione, le bambine masai devono stare zitte e ferme sulla pietra, senza muovere neppure gli occhi, altrimenti nessuno le vorrà in spose. Per questo sarei fuggita all’infinito. Ma lo zio insisteva, così mi decisi ad affrontare mio nonno, il capofamiglia: “Non voglio essere tagliata – gli dissi – ho solo otto anni e, prima di diventare donna, devo finire la scuola”. Lui era sbalordito ma era un uomo buono: finì per cedere alla mia insistenza».
Oggi Nice Nailantei Leng’ete è una ventitreenne alta e sinuosa, pros­sima alla laurea in management sanitario e convinta che bastino un ideale e una testa dura per ribaltare il mondo. Lei c’è già riuscita qui, nella società profondamente patriarcale dei pastori masai sparsi per il paesaggio attorno alla cittadina di Loitokitok. Impegnata fin da ado­lescente con l’organizzazione sanitaria Amref («Ero l’unica ragazza del villaggio a saper leggere e scrivere: mi hanno scelta come mediatrice tra gli operatori e la comunità masai»), ha trovato la chiave dello sviluppo esorcizzando il suo spauracchio di bambina: il “taglio”. Perché «una ragazza circoncisa, anche se ha solo otto o dieci anni, è considerata una donna: deve sposarsi e fare figli. Abbandonerà la scuola e non saprà fare nulla se non badare alla casa e ai bambini, perpetuando l’inerzia del­la sua comunità». La ragazza istruita, invece, «porta più mucche», sta scritto sulla sua t-shirt: uno slogan semplice ed efficace che ha indotto a capitolare gli anziani masai esattamente come la piccola Nice, quindici anni fa, era riuscita a persuadere suo nonno.
«L’abbiamo ascoltata perché è una di noi», dice Lemura Nkolepo, anziano del villaggio di Nomayianat, avvolto nel mantello rosso e appoggiato all’esiere, il bastone simbolo del potere maschile. «Ci ha spiegato cose che non avevamo mai sentito prima, dandoci la speranza che, con questa innovazione, potremo tutti prosperare».
(…)
L’eco internazionale non è tardata: Nice Nailantei Leng’ete è stata invitata a tenere una Ted Conference ad Amsterdam e un discorso alla Clinton Global Initiative di New York. «È stato esaltante, come supe­rare un esame importantissimo – confida – e poiché nessuno all’estero riusciva a pronunciare il mio nome intero, ho detto a tutti: chiamate­mi pure Miss Kilimanjaro, è più semplice». Ha anche viaggiato in Ita­lia come testimonial di Amref per la salute materno-infantile in Africa: condannare l’escissione, infatti, è un passo verso parti più sicuri, e il concetto è arrivato persino a chi sulla circoncisione femminile ha sempre campato.
La faticosa opera di persuasione, sulla quale in pochi avrebbero scom­messo uno scellino, pare ormai compiuta tra i masai di Loitokitok, e Nice cammina per la savana come una regina fasciata nei suoi abiti tra­dizionali viola e azzurri, salutata e benedetta da tutti come una figlia capace di bizzarre alchimie. Dal dicembre del 2013 all’aprile successivo, ha sottratto alla mutilazione genitale 621 ragazze dei distretti rurali, in­ventandosi un “rito di passaggio” alternativo che rispetta le usanze masai mondandole dal sangue. «Siamo diventate donne senza soffrire», sorride Anita, quindici anni, studentessa della scuola di Inkariak Ronkena. Che racconta: «La cerimonia d’iniziazione è identica a quella tradizionale, con danze e sacrifici di capre e mucche, solo che non c’è alcun taglio. Gli anziani benedicono i nostri libri, i quaderni e le penne, per inco­raggiarci a studiare, mentre in passato auguravano alle ragazze solo di trovare marito in fretta. Prima della festa, abbiamo seguito un training di due giorni sull’educazione sessuale, l’igiene personale, le conseguenze dannose del taglio e i nostri diritti di donne».
(…)
«L’istruzione è la nuova circoncisione, l’autentica iniziazione all’età adulta. – recita un altro slogan inventato da Nice – Solo andando a scuola, una bimba può diventare la donna dei propri sogni». E qual è la donna dei tuoi sogni, Nice? Lei alza gli occhi al cielo nuvoloso, con uno sguardo rimasto bambino, e non tradisce dubbi: «Voglio di­ventare la presidente di un’organizzazione con tanti fondi, per poterli investire nell’educazione di queste ragazze. Solo in loro sta il futuro della nostra comunità e del nostro Paese».

Il congedo è una danza sulla terra rossa tra canti acuti in onore di Nice, ambasciatrice di un’Africa che s’è scrollata di dosso il cliché dell’inerzia.

giovedì 2 febbraio 2017

Cyberbullismo, il Senato approva il disegno di legge

L'Aula del Senato ha approvato, con 224 sì, un solo no e 6 astenuti, il disegno di legge che punta a contrastare il fenomeno del cyberbullismo. Il provvedimento, riscritto rispetto alla versione arrivata dalla Camera, dovrà ora tornare a Montecitorio in quarta lettura. "Abbiamo riproposto sostanzialmente il testo originario, quello che venne approvato qui a Palazzo Madama" il 20 maggio del 2015, spiega la prima firmataria e relatrice Elena Ferrara all’Ansa, "perché abbiamo preferito scollegare la tutela dei minori da quella degli adulti" senza rimettere mano al codice penale. "Il fenomeno del cyberbullismo è talmente grave – sottolinea – che abbiamo scelto di concentrarci sui minorenni che sono i più deboli".
Esistono già degli strumenti di difesa per gli adulti, sostiene la senatrice Ferrara, mentre la tutela dei più giovani "va rafforzata". Pertanto il ddl prevede sostanzialmente misure di prevenzione e di educazione nelle scuole sia per le vittime, sia per i bulli. Tra le novità: la definizione del fenomeno e la possibilità, per il minore (anche senza che il genitore lo sappia) di chiedere direttamente al gestore del sito l'oscuramento o la rimozione della "cyber aggressione". Nel caso in cui il gestore ignori l'allarme, la vittima, stavolta con il genitore informato, potrà rivolgersi al Garante per la Privacy che entro 48 ore dovrà intervenire.
Il disegno di legge prevede inoltre un Tavolo tecnico interministeriale presso la Presidenza del Consiglio con il compito di coordinare i vari interventi e di mettere a punto un Piano integrato contro il bullismo via web. E stabilisce la "procedura di ammonimento" come nella legge anti-stalking: il bullo con più di 14 anni sarà convocato dal Questore insieme ai genitori per un ammonimento, i cui effetti cesseranno solo una volta maggiorenne. Ogni scuola infine dovrà individuare tra i professori un addetto al contrasto e alla prevenzione del cyberbullismo che potrà avvalersi della collaborazione delle Forze polizia.

Sul tema segnaliamo il libro di Luciano Garofano e Lorenzo Puglisi dal titolo La prepotenza invisibile. Bulli e cyberbulli: chi sono e come difendersi.

"Tutto è vanità", un romanzo d'esordio in una #Parma noir

Parma. Vigilia delle elezioni amministrative. Un omicidio ad apparente sfondo religioso sconvolge la città. Indagano due Carabinieri, Sarti e Cigala, che attraverso le loro indagini scoperchiano una pentola piena di corruzione e di profittatori che s’adoperano per sfruttare l’indignazione delle persone comuni per loro biechi fini personali. A fare da sfondo alla vicenda, una Parma notturna e noir, apparentemente chic ma in realtà superba e sempre pronta a voltare la testa dall’altra parte…
“Questo libro è un atto d’amore per Parma. Un amore ferito, per una città raccontata come estranea a se stessa. Una città post: post-industriale, post-moderna, post-bellica quasi. Le macerie non sono il frutto di bombe fisiche, ma di mali dell’anima. Nessuno sfugge, durante la campagna elettorale che fa da sfondo alle vicende: imprenditori avidi, manager collusi, generali corrotti, politici docili, cittadini indifferenti… non c’è spazio per un potere che non sia degenerato fino all’omicidio…”. (Giuseppe Bizzi)
“Che si cerchi di riflettere, anche inventando scenari di pura fantasia, sul vuoto surreale nel quale una città colta e da sempre vivace come Parma è di colpo sprofondata una manciata appena di anni fa, costituisce un contributo apprezzabile all’impresa – non illudiamoci: di lunga lena – di rigenerare questa bella città”. (Sergio Manghi)

Il libro:
Titolo: Tutto è vanità.
Omicidi e intrighi in una Parma malata di superbia
Autore: Filippo Binini
Pag. 136 - € 12

L’autore
Filippo Binini (Parma, 1985), laureato in Scienze politiche all’Università di Bologna, studia Scienze religiose all’Istituto Superiore Sant’Ilario di Poitiers di Parma. Lavora come educatore per la cooperativa sociale Eidé e insegna religione cattolica in alcune scuole primarie del parmense.




mercoledì 1 febbraio 2017

I nostri #soldi, nuovo in libreria "Capitale garantito"

Informazione e consapevolezza ci aiutano a investire con successo i nostri soldi

Più di un secolo fa Henry Ford, fondatore dell’omonima casa automobilistica, sosteneva: “Meno male che la popolazione non capisce il nostro sistema bancario e monetario, perché se lo capisse, credo che prima di domani scoppierebbe una rivoluzione”. Il sistema bancario e finanziario sa perfettamente che un cliente poco informato è più facile da gestire, per cui non ha alcun interesse a elevarne il livello di cultura finanziaria. Per farlo sono indispensabili due fattori: un’informazione oggettiva, priva di conflitti di interesse, e la volontà di imparare.

Questa guida vuole fornire tutte le informazioni indispensabili per poter decidere in modo consapevole come investire i nostri risparmi e imparare a valutare con attenzione quanto proposto da banche e assicurazioni, che operano in costante conflitto d’interessi in epoca di tassi a zero.

I vecchi e sicuri titoli di Stato ormai non rendono più nulla, per non parlare dei depositi bancari. Le banche sono piene di liquidità regalata loro dalla BCE e costringono i risparmiatori a sottoscrivere obbligazioni che possono non rimborsare se si trovano in difficoltà, fondi comuni dove l’unica certezza è il guadagno del collocatore e polizze assicurative che non sempre garantiscono il capitale. Questi sono i principali prodotti presenti nei listini di vendita degli intermediari. Finché i mercati finanziari salgono, tutto va bene, ma al primo segnale di instabilità emergono i dubbi. A questo si aggiunga che i consulenti bancari seguono corsi di vendita per decantare i pregi dei prodotti da collocare e non sempre ne evidenziano i difetti, che si scoprono quando è troppo tardi. Ecco allora che questa guida, scritta da tre ex-bancari “pentiti” passati dall’altra parte per difendere i risparmiatori che intendono farsi aiutare, diventa uno strumento non solo essenziale, ma anche unico e imperdibile.

Il libro:
Titolo: Capitale garantito. Come proteggere i nostri risparmi senza arricchire banche e assicurazioni
Autori: Massimo Guerrieri, Paolo Giovanardi, Antonello Cattani
Pag. 72 - € 10

Gli autori
Massimo Guerrieri ha lavorato per oltre quindici anni nel settore finanziario nel campo della consulenza alla clientela. Nel 2004, spinto dalla voglia di verità, ha abbandonato il sistema banca con i suoi conflitti d’interesse e si è posto a fianco dei cittadini. Fra i primi consulenti finanziari indipendenti in Italia, è oggi titolare dello studio “Q Consulenze Finanziarie”.
Paolo Giovanardi, dottore in Economia politica, ha lavorato sei anni in banca occupandosi di rapporti coi risparmiatori. Volendosi dedicare in totale libertà al servizio dei clienti e deluso dal rapporto banca-risparmiatore, dal 2009 ha scelto la consulenza finanziaria indipendente e lavora presso “Q Consulenze Finanziarie”.
Antonello Cattani ha lavorato in banca dal 1987 svolgendo attività di consulenza su investimenti e di gestione aziende. È stato direttore di filiale dal 2002 al 2010, quando ha deciso di mettere la sua esperienza a tutela dei cittadini ed è entrato nel team di  “Q Consulenze Finanziarie”.

Con Infinito edizioni hanno pubblicato “Così banche e finanza ci rovinano la vita” (2015).