Translate

mercoledì 26 aprile 2017

26 aprile 1986, il disastro di #Chernobyl

Infinito edizioni – novità in libreria

Giardino Atomico. Ritorno a Chernobyl
(€ 11,00 – pag. 96 – con foto b/n)

di Emanuela Zuccalà
Prefazione di Giuseppe Onufrio
Postfazioni di Roberto Rebecchi e Massimo Bonfatti


Chernobyl, 26 aprile 1986. L’esplosione del reattore numero 4 della centrale nucleare ucraina scatena una potenza radioattiva quattrocento volte superiore alle bombe sganciate dagli americani sul Giappone. Il disastro viene inizialmente nascosto dalle autorità sovietiche e ancora oggi non se ne conosce l’intera portata. Tre decenni dopo, quando i lavori di messa in sicurezza della struttura sono ancora lentamente in corso, questa indagine sul campo racconta tutta la verità: le bugie sulla gravità dell’incidente; la nube radioattiva che ha lambito l’Europa intera; i “liquidatori” che hanno perso la vita a pochi giorni dall’esplosione; donne, uomini e bambini morti o gravemente malati a causa degli elementi radioattivi liberati in natura; il mostro radioattivo che continua a colpire ancora oggi. I dati pubblici dell’Unscear e il governo ucraino affermano che il pericolo è passato, minimizzando il rischio, ma le indagini indipendenti asseriscono il contrario: chi è tornato o si è trasferito a vivere sui terreni e nelle case nei dintorni della centrale è costantemente a rischio.
“I racconti e le testimonianze di questo libro indagano la dimensione umana e restituiscono un’idea della catastrofe sociale, che è stata una delle conseguenze principali dell’esplosione del reattore numero 4”. (Giuseppe Onufrio)
Chernobyl con le sue conseguenze è ancora presente e lo sarà per molto tempo a venire: nessun sarcofago potrà proteggere la vita di coloro che oggi e domani abiteranno il suo ‘giardino atomico’.
Per questa ragione è indispensabile ancora oggi conoscere, raccontare e non dimenticare”. (Roberto Rebecchi)
“Le radiazioni uccidono in differita. Ricordiamocelo per i nostri figli. Lanciamo l’allarme: siamo ancora in tempo”. (Massimo Bonfatti)


Con il patrocinio di Greenpeace, Legambiente Solidarietà e Mondo in Cammino


lunedì 24 aprile 2017

25 aprile, festa della Liberazione

Durante la seconda guerra mondiale, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, nacque in Italia la Resistenza. Il movimento sorse dall'impegno comune di individui, partiti e movimenti che decisero di contrastare l’occupazione militare tedesca e quella della Repubblica Sociale Italiana, fondata da Benito Mussolini sul territorio controllato dalle truppe della Germania nazista.

La Resistenza, che può essere inquadrabile nel più ampio fenomeno europeo della resistenza all'occupazione nazista, fu caratterizzata in Italia dall'impegno unitario di molteplici e talora opposti orientamenti politici (ricordiamo tra questi cattolici, comunisti, liberali, socialisti, azionisti, monarchici). La Resistenza raccolse quindi sia gruppi organizzati che spontanei di differenti estrazioni politiche, uniti però nel comune intento di opporsi militarmente e politicamente al governo della Repubblica Sociale Italiana (RSI) e degli occupanti nazisti tedeschi.

Ne scaturì la "guerra partigiana", che si concluse il 25 aprile 1945, quando l'insurrezione armata proclamata dal Comitato di liberazione nazionale per l'Alta Italia (CLNAI) riuscì a controllare la maggior parte delle città del nord del Paese, che era l'ultima parte di territorio ancora occupata dalle truppe tedesche in ritirata verso la Germania e soggetta all'azione repressiva delle formazioni repubblichine della Repubblica Sociale Italiana cui il movimento partigiano opponeva la propria resistenza. La resa incondizionata dell'esercito tedesco si ebbe il 29 aprile.

La Resistenza italiana terminò formalmente il 29 aprile, con la resa incondizionata dell'esercito tedesco. Ma i giorni dal 25 al 29 aprile furono intensi: infatti il 27 aprile Benito Mussolini fu catturato a Dongo, vicino al confine con la Svizzera, mentre, travestito da soldato tedesco tentava di espatriare assieme all'amante Claretta Petacci. Riconosciuto dai partigiani, fu fatto prigioniero e giustiziato il giorno successivo, il 28 aprile, a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como. Il suo cadavere venne esposto impiccato a testa in giù, accanto a quelli della stessa Petacci e di altri gerarchi, in piazzale Loreto a Milano, ove fu lasciato alla disponibilità della folla. In quello stesso luogo otto mesi prima i nazifascisti avevano esposto, quale monito alla Resistenza italiana, i corpi di quindici partigiani uccisi.

Il 2 maggio il generale inglese Alexander ordinò la smobilitazione delle forze partigiane, con la consegna delle armi. L'ordine venne in generale eseguito. Una parte delle forze partigiane fu arruolato nella "polizia ausiliaria" ad hoc costituita.


Segnaliamo questi testi sull’argomento

venerdì 21 aprile 2017

22 APRILE, GIORNATA MONDIALE DELLA TERRA

La Giornata mondiale della Terra è il nome usato per indicare il giorno in cui si celebra l’ambiente e la salvaguardia del pianeta Terra. Le Nazioni Unite celebrano questa festa ogni anno, il 22 aprile, un mese e due giorni dopo l’equinozio di primavera. La celebrazione, che vuole coinvolgere il maggior numero di Paesi, è stata istituita il 22 aprile 1970 per sottolineare la necessità della conservazione delle risorse naturali della Terra.
Quest’anno Earth Day Italia, in accordo con il Ministero dell'Ambiente, ha deciso di incentrare le celebrazioni della 47° Giornata Mondiale della Terra sul tema dell'educazione ambientale favorendo così l'incontro tra la scuola e il mondo dell'offerta formativa, promossa da istituzioni e organizzazioni. Per l'edizione 2017 della Giornata della Terra, Earth Day Italia intende celebrare questo importante momento con iniziative di assoluta qualità che saranno ospitate per il quarto anno consecutivo a Villa Borghese, dal 21 al 25 aprile all'interno del Villaggio per la Terra; un ruolo centrale sarà attribuito all'appuntamento "Educazione ambientale in festival" nelle prime due giornate, le più significative della manifestazione, 21 e 22 Aprile.
Per festeggiare la Giornata mondiale della Terra segnaliamo la novità in libreria di Carlo Carere e Gian Giuseppe Ruzzu Incubo radioattivo, un libro verità che, in una trama avvincente e adrenalinica, disvela in forma narrativa i più scottanti segreti emersi nelle indagini parlamentari e giudiziarie sui traffici mondiali di scorie nucleari. 

Il tema del cambiamento climatico e del rapporto tra uomo e natura è affrontato da Andrea Merusi in La sfida di oggi che, nelle conclusioni, evidenzia delle possibili strade da percorrere – nell’ambito della green economy – per contrastare e prevenire i fenomeni di catastrofi naturali che vediamo verificarsi sempre più di frequente. 

giovedì 20 aprile 2017

L’arresto di Gabriele Del Grande

Sono trascorsi oltre dieci giorni da domenica 9 aprile, giorno in cui il nostro autore Gabriele Del Grande, reporter e documentarista, è stato arrestato dalle autorità turche al confine tra la Turchia e la Siria. Gabriele, attualmente trattenuto in un centro di detenzione amministrativa a Mugla, ha potuto telefonare solo martedì sera alla compagna Alexandra D’Onofrio, raccontandole di non aver più il suo telefono cellulare, né i documenti e le sue cose. Gabriele ha rassicurato Alexandra sulla sua salute e l’ha informata di essere stato interrogato più volte, ma di non aver ancora avuto diritto a un avvocato. Per questo Gabriele ha iniziato uno sciopero della fame, invitando tutti a mobilitarsi per il rispetto dei suoi diritti.
Notizie diplomatiche informano che domani, venerdì, il consolato italiano in Turchia potrà incontrare Gabriele e che il ministro degli Esteri italiano Alfano ha chiamato ieri il collega turco per ribadire la richiesta del rilascio immediato del reporter toscano, ricevendo una risposta di massimo impegno dal governo di Ankara perché la procedure vengano concluse al più presto. Sul caso è intervenuta anche l'Alto rappresentante Ue per la politica estera Federica Mogherini che afferma: "Ci siamo coordinati con le autorità italiane fin dal primo momento, come facciamo in casi simili in cui la responsabilità principale è dello Stato membro. L'Ue, in questo particolare caso, si è attivata per sostenere l'azione dell'ambasciatore italiano ad Ankara, che oltretutto ho sentito nei giorni scorsi, per sostenere l'azione della Farnesina e del governo italiano rispetto alle autorità turche".
Sono tantissime le manifestazioni di solidarietà a Gabriele partite in questi giorni, a cominciare da un appello alle istituzioni firmato da Francesca Borri, Concita De Gregorio, Giovanni De Mauro, Stefano Liberti, Valerio Mastandrea, Andrea Segre e dal regista Daniele Vicari. "Conosciamo Gabriele Del Grande da molti anni – si legge nell'appello – abbiamo condiviso con lui viaggi, inchieste e racconti, avendo l'onore e il piacere di apprezzare la professionalità e l'umanità con cui ha sempre condotto le sue ricerche. Il suo contributo alla democrazia del nostro Paese è da anni di enorme valore, grazie alla sua capacità di incontrare, conoscere e capire realtà diverse e complesse, grazie alla sua lucidità nel saper collegare responsabilità politiche a quotidiane ingiustizie subite da uomini e donne delle tante culture che vivono nell'Italia e nel Mediterraneo di oggi".
Le piazze italiane si stanno mobilitando con tantissime iniziative; tra le tante ricordiamo che sabato 22 aprile a Palermo,
alla vigilia della XXXII Assemblea generale di Amnesty International Italia, si tiene un’iniziativa in favore di Gabriele. A partire dalle 16,00 ai Cantieri culturali della Zisa, Alessio Genovese, reporter che ha collaborato in diverse occasioni con Del Grande, e Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, aggiorneranno sulla situazione di Del Grande e sulle iniziative in corso per sollecitarne il rilascio. Seguirà la proiezione del documentario “Io sto con la sposa”, realizzato nel 2014 da Antonio Augugliaro, Khaled Soliman Al Nassiry e da Gabriele.
E il web, che segue Gabriele da sempre con affetto, si augura la sua liberazione al più presto attraverso l’hastag #iostocongabriele e #FreeGabriele


Con la nostra casa editrice Gabriele Del Grande ha pubblicato: Il mare di mezzo, Mamadou va a morire e Roma senza fissa dimora

venerdì 7 aprile 2017

Pillole di storia: 7-9 aprile 1992

7 aprile 1992, siamo nei primi giorni dell’assedio che terrà prigioniera Sarajevo per circa 1.400 giorni. Ricordiamo quei giorni grazie al lavoro del nostro autore Bruno Maran in Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti che ripercorre gli ultimi decenni della storia jugoslava, anno per anno, giorno per giorno.
7 aprile – Un timido sole illumina Sarajevo colpita dal delirio di una logica razzista, avente l’obiettivo di distruggere la convivenza civile, il komšiluk. Scrive Kemal Kurspahić, nell’editoriale su Oslobodjenje: “Chi non sta dalla parte giusta in queste ore, non sarà mai più in grado di ritornare alla ragione. Chi si ritrova sulle posizioni da cui si spara ai bambini, condanna se stesso e non dovrà attendere il giudizio del tempo. Questo è il tempo in cui ognuno di noi ha un’opportunità di incontrare la propria coscienza e di fare una scelta, in questo momento sono il diritto alla vita e alla dignità che vanno difesi. Ecco perché le vittime innocenti vivranno molto più a lungo dei loro assassini. Dio benedica le loro anime”.
A Banja Luka, l’assemblea del popolo serbo proclama l’indipendenza della Repubblica serba di Bosnia, con l’intenzione di federarsi a Serbia e Monte­negro per creare una “nuova Jugoslavia”. Non è chiaro quali saranno i confini dell’auto-proclamata repubblica, sicuramente in sintonia con il Memorandum dell’Accademia delle Arti e delle Scienze di Belgrado, che teorizzò, sia pure tra le righe, la “pulizia etnica”. La bandiera è quella tradizionale della Serbia, con la croce e le “quattro C” cirilliche al centro: Samo Sloga Srbina Spasava (Solo l’unità salverà i serbi). I serbo-bosniaci cantano: Vendi la vacca e compra il fucile!.
Nel villaggio a etnia mista di Kuljenovci, nel nord della BiH, due soldati della Jna cadono in un’imboscata mentre sono di pattuglia. Carri armati croati pas­sano il ponte di Derventa. Al censimento del ‘91, la municipalità di Derventa era composta per il 40% da serbi, 38% da croati e il 12% da musulmani.
8 aprile – Izetbegović dichiara lo stato d’emergenza e costituisce la strut­tura della Difesa territoriale. Comandante il bosniaco musulmano Hasan Efendić, ex colonnello della Jna; vice-comandanti Jovan Divjak, serbo di Belgrado, da decenni residente a Sarajevo e il croato Stjepan Šiber; primo capo di Stato maggiore è Sefer Halilović. La Bosnia è priva di Difesa ter­ritoriale. Molto prima delle ostilità, nel maggio del 1980, ha consegnato 300.000 armi, tra cui fucili, mortai e artiglieria leggera, alla Jna. Se soltanto la metà delle armi consegnate fossero state trattenute dalle forze bosniache, la guerra in Bosnia avrebbe avuto un altro corso…
La Jna bombarda Zvornik, dove è ucciso il corrispondente di Oslobodjenje. I četnici serbo-bosniaci lo trovano alla macchina da scrivere, lo trascinano fuori, in un cimitero, dove è trucidato con altri undici civili. A Grude s’in­sedia il Consiglio di Difesa croato Hvo, quale “unica forma di difesa istitu­zionale” dei croati di Bosnia.
Durante il mese di aprile pesanti bombardamenti su Sarajevo da parte del­le forze serbo-bosniache che hanno occupato tutte le postazioni strategiche sopra la città e si sono impossessate degli armamenti dell’Armata federale, compresi quelli appartenuti alla Difesa territoriale. Il sibilo delle granate e il tiro dei cecchini sovrastano il vociare dei mercati della città. Gli obiettivi mili­tari sono trascurati, il bersaglio è l’intera città, per terrorizzarla, per affamarla: “Alle ore 00,00 un proiettile T.130 m/m. Alle ore 2,00 un proiettile T.130 m/m! Alle ore 4,00 un proiettile T.130 m/m. Alle ore 6,00 un proiettile T.130 m/m”.
L’utilizzo di cecchini diventa una pratica diffusa e ben remunerata. I cec­chini, spesso ex campioni di tiro a segno o tiratori scelti, sparano a colpo sicuro sulla popolazione, che rappresenta il vero ostaggio di questo assedio. Sono pagati molto bene per il loro sporco lavoro. C’è chi dice che incassino un premio per ogni colpo a segno può variare tra i 200 e i 500 marchi, tal­volta anche 1.000 per certi target difficili, come i bambini mentre giocano. Secondo altri il pagamento non è “a testa” ma a giornata o a settimana, ma sempre molto elevato. È circolata con insistenza la voce secondo cui posta­zioni di tiro siano state affittate a caro prezzo a cacciatori occidentali, anche italiani, in cerca di emozioni forti: sparare a prede umane.
9 aprile – Izetbegović ordina l’unificazione dei gruppi paramilitari musul­mani e croati di Bosnia, ma l’obiettivo è difficile da raggiungere per la rilut­tanza croata alla perdita di autonomia e per i sempre più frequenti contrasti all’interno del campo musulmano. Il Partito di azione democratica (Sda) di Izetbegović, nel tentativo di influire sulle strutture di comando, provoca un’emorragia tra i combattenti “non musulmani”.

L’Armata federale occupa più del 60% del territorio bosniaco in nome del progetto di costituzione della “Grande Serbia” e per il controllo delle aree stra­tegiche per la sopravvivenza dell’Armata stessa. A Banja Luka, Travnik, Vitez, Konjic, Goradže, Mostar hanno sede le maggiori industrie belliche “jugosla­ve”. Gli abitanti, che non sposano la causa serba sono trucidati o internati in campi di concentramento, come quello di Sanski Most. I più fortunati sono deportati “fuori dalla terra serba”, spesso con l’aiuto o la connivenza della Croce rossa. “Sciacalli e cani di guerra” fanno razzie d’ogni genere. Secondo una commissione del Senato degli Stati Uniti, in questa fase sono uccise circa 35.000 persone. Le stime dell’Unhcr affermano che almeno 420.000 sono costrette alla fuga e almeno 200 case sono incendiate ogni giorno. Ovunque la popolazione è terrorizzata e incredula. Chi può scappa, pensando che in breve tempo tutto si dissolverà come un brutto incubo. Sono migliaia le fa­miglie che fuggono con la speranza di poter ritornare dopo poche settimane. Da Sarajevo partono sugli ultimi aerei, le auto stracariche, i treni e le corriere. Almeno 10.000 studenti lasciano l’università. Il flusso continua per tutto il mese, alla fine saranno oltre 100.000 i cittadini che abbandonano la capi­tale, riversandosi su Zagabria, Tuzla, Belgrado, in Montenegro e all’estero, soprattutto in Germania. A detta di qualche analista l’assedio di Sarajevo riveste una funzione diversiva: concentrare le preoccupazioni della comunità internazionale sulle sorti della capitale e distogliere l’attenzione dalle feroci operazioni di “pulizia etnica” in atto sul resto del territorio bosniaco.

giovedì 6 aprile 2017

6 aprile, data simbolo per Sarajevo e per la Bosnia Erzegovina

Il 6 aprile è una data con una forte connotazione simbolica per la Jugoslavia, la Bosnia Erzegovina e la sua capitale Sarajevo. Ripercorriamo questa data in oltre settant’anni di storia con l’aiuto del lavoro di Bruno Maran e del suo prezioso libro dal titolo “Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti
Il 6 aprile 1941 le forze dell’Asse, senza alcuna dichiarazione di guerra, attaccano il Regno di Jugoslavia. È l’operazione Castigo che si caratterizza per un pesante bombardamento di Belgrado.
Quattro anni più tardi, il 6 aprile 1945, è invece un giorno di festa perché segna la liberazione di Sarajevo da parte dei partigiani titini, senza l’intervento delle forze armate di altri Paesi.
Il 6 aprile 1992 inizia il lunghissimo assedio di Sarajevo, durato circa 1.400 giorni, e sempre in quella data comincia la guerra in Bosnia Erzegovina, terminata solo nel novembre del 1995 con la firma degli Accordi di Dayton (ma in realtà l’assedio sarà tolto solo alla fine di febbraio del 1996).
Ancora il 6 aprile 1992, la Jna, l’Esercito popolare jugoslavo, a tradimento bombarda Višegrad, nella Bosnia orientale, e i suoi abitanti scappano; qualche giorno più tardi, credendo alle garanzie di sicurezza promesse dai militari, torneranno in 13.000, gran parte dei quali musulmani-bosniaci.
Sempre il 6 aprile 1992, la Comunità europea riconosce la BiH come Stato indipendente entro i confini assegnanti dalla Repubblica federale jugoslava. Gli Stati Uniti riconoscono Slovenia, Croazia e Bosnia Erzegovina, mentre la Croazia, riconoscendo la BiH, offre ai croato-bosnia­ci la doppia cittadinanza.

Il 6 aprile 2012, infine, 11.541 sedie rosse colorano Maršala Tita ulica. Ognuna delle sedie messe in fila dalla moschea di Ali-Pascià fino alla Fiamma eterna rappresenta una vittima dell’assedio. L’impatto visivo è impressionante, il fiume di sedie rosse ha un forte potere evocativo; 643 sedie più piccole sono per ricordare i bambini uccisi. Sulle seggioline sono appoggiati fiori, disegni, palloncini, giocattoli, nell’aria una domanda forte: “Perché?”.


6 aprile 1992, il dramma di Sarajevo nel ricordo di Dubravka Ustalić

25 anni fa iniziava la tremenda guerra in Bosnia Erzegovina con il lunghissimo assedio di Sarajevo, durato circa 1.400 giorni, e un tributo di morti, distruzione e dolore immensi. Vogliamo ricordare quei giorni tremendi con le parole della nostra autrice Dubravka Ustalić che, negli anni d’assedio e di guerra ha tenuto traccia dei suoi ricordi in un prezioso quaderno che è diventato un libro dal titolo “Diario da Sarajevo”.
“Aprile 1992, Bajram, grande festa musulmana: la celebrammo, come tutti, con tanti dolci e le impareggiabili baklave, accompagnate dal pro­fumo del caffè del primo mattino che, con la sua fragranza, dà la voglia d’iniziare un nuovo giorno. Arrivarono da noi i cugini per i rituali auguri di ogni bene. Noi andammo dai nostri amici e tutto sarebbe stato come ogni anno se per le strade di Sarajevo non avessimo notato in continua­zione strani cambiamenti, come alcune persone straniere vestite di bian­co, che avrebbero dovuto rappresentare gli osservatori. Alcuni soldati coi caschi blu avrebbero dovuto tutelare la pace, come se con la loro presenza potessimo essere sicuri che il “mondo” aveva deciso di non ignorare il nostro destino. Io ho avuto sinceramente fiducia in tutti loro: era come una conferma che non sarebbe accaduto nulla di tragico.
Davanti alle caserme della Jna furono potenziate le pattuglie con i carri armati e quello che era l’esercito del popolo, al posto di infonderci un senso di sicurezza, adesso, coi suoi strani e affrettati movimenti di colonne e mezzi corazzati, rappresentava per tutti noi una fonte di pericolo e d’incertezza.
In tutta la città i negozi erano già abbastanza vuoti a causa della paura, sebbene non si sapesse ancora precisamente di cosa.
La gente cominciava semplicemente ad accumulare provviste. Allora non ero ancora cosciente di che grande mossa avesse compiuto mia suo­cera comprando in quei giorni quasi cinquecento chili di farina, dell’olio e dello zucchero.
  Tutti seguivamo i notiziari alla radio e alla televisione sperando che accadesse qualche miracolo capace di cancellare tutte le nostre preoc­cupazioni e che la vita continuasse a scorrere nella normalità più asso­luta. In tutte le nostre strade gli uomini avevano iniziato a radunarsi e a discutere della situazione e di come organizzarsi nel caso in cui ci si sarebbe dovuti difendere poiché, come ormai era chiaro, la Jna non era più l’esercito di tutte le Repubbliche ma solo l’esercito serbo. Nessuno di noi possedeva un’arma, se non la polizia: eravamo, si può dire, a mani nude, quando, non so a quale velocità, forse a quella della prima granata che ci colse impreparati, tutta la nostra vita cambiò del tutto. Nulla più fu come prima, e non potrà mai più esserlo. Ci colse di sorpresa nel nostro appartamento, in cucina. In preda al panico siamo balzati verso la finestra e abbiamo potuto vedere da dove provenisse quel colpo terribile. Dalla nostra finestra che s’affacciava sulla città dal monte Džamija­ avevamo una vista magnifica su tutta la città vecchia e spesso mi sedevo sul divano e guardavo rapita lo spettacolo di Sarajevo. Ora c’era solo fumo, bianco quindi rosso, una delle case era rimasta distrutta. Proprio nella Baščaršija­: la nostra inebriante, stupenda, chiassosa Baščaršija. Fu solo la prima bomba, a cui ne seguirono tante altre che più nessuno riuscì a contare. Gli aerei volavano sopra la città, così bassi proprio sulla nostra casa; un attimo dopo si sentì un’esplosione che dalle fondamenta scosse tutto il mio corpo. Mi buttai alla disperata su mio figlio, d’istinto, e restammo sul pavimento della cucina tremando di paura. Nel panico più completo, con un unico pensiero nella testa: dove rifugiarci per poterci salvare? Arin piangeva dalla paura, io lo tenevo in braccio e con lo sguar­do cercavo l’aiuto di Nedim, supplicandolo: “Cosa facciamo ora?”. ­
Avevo visto quanto fosse agitato e attonito anche lui, ma comunque riuscì a uscire per informarsi su cosa fosse avvenuto. “È stato solo il boato di due aerei in volo quando hanno oltrepassato il muro del suono”. “Non è nulla”, disse abbracciandomi, ma senza esito; la paura era entrata in me e aveva trovato un terreno fertile, cosicché il panico non mi lasciasse più.
Le granate iniziarono a cadere ogni giorno, non si sapeva dove e quan­do; Sarajevo iniziò a bruciare. Non c’erano più negozi dove si potesse comprare qualcosa, erano tutti completamente vuoti.”

Il libro:
Titolo: Diario da Sarajevo. Assedio, evasione e ritorno
Autrice: Dubravka Ustalic - Traduttore: Silvio Ziliotto
Pag. 224 - € 15
L’autrice
Dubravka Ustalić (Tuzla, 1967) ha vissuto a Kladanj e si è trasferita nel 1986 a Sarajevo, dove ha cominciato a lavorare come commessa. Nel 1988 conosce il futuro marito Nedim, che sposa nel 1990. Nel 1991 nasce il loro primo figlio, Arin, ma nell’aprile del 1992 in Bosnia scoppia la guerra. Da allora la sua vita è divisa tra fughe e ritorni nella Sarajevo assediata, il campo profughi in Croazia, le speranze in Germania e la rinascita in Italia, dove nasce il secondo figlio, Beniamino. Nel 2005 Dubravka torna a Sarajevo con l’intera famiglia e lì ancora oggi vivono tutti tra le mille difficoltà di un dopoguerra infinito.

Il traduttore
Silvio Ziliotto (Milano, 1971) è traduttore, interprete e insegnante della lingua serba, croata e bosniaca. Consulente e autore dei lemmi degli autori e dei profili delle letterature slovena, croata, serba, bosniaca, montenegrina, macedone e albanese della Garzantina della letteratura (2007). Tra i libri tradotti ama ricordare: la monografia Palmižana, La saga della Quintessenza (2005), la raccolta di racconti Gli occhi colmi di terra di Šimun Šito Ćorić (2011).


mercoledì 5 aprile 2017

5-6 aprile 1992, al via il dramma di Sarajevo e le cannonate su Višegrad

Il 5 aprile 1992 paramilitari serbo-bosniaci attaccano la scuola di polizia di Vrača, a Sarajevo, dove sono in corso i festeggiamenti per la fine del sesto mese di corso. Le forze speciali serbe pretendono di prendere possesso dei locali ma il comandante della scuola si rifiuta. Comincia così la prima battaglia registrata a Sarajevo della guerra del 1992-1995. Nella Bosnia orientale si sparava già da qualche giorno. La battaglia dura 24 ore, dopo di che una trattativa permette ai cadetti di lasciare la scuola, ma non al loro comandante. Contemporaneamente, a Vrača cominciano violenze e saccheggi. È già il 6 aprile e sta andando in scena la manifesta­zione rievocativa della liberazione di Sarajevo da parte dei partigiani nel 1945, con circa 40.000 persone affollate sotto al palazzo del parlamento. All’improv­viso cecchini četnici serbo-bosniaci aprono il fuoco sui manifestanti. La folla, in preda al panico, in parte entra nel palazzo del parlamento, in parte marcia verso il ponte Vrbanja, sbar­rato dalla barricata che blocca l’accesso a Grbavica. Quando la folla avanza, un cecchino apre il fuoco. Suada Dilberović, 23 anni, venuta da Dubrovnik per studiare a Sarajevo, cade a terra senza vita. Anche Olga Sučić, croata, è uccisa dai cecchini; altri sono feriti. Così inizia il lunghissimo assedio di Sarajevo, durato circa 1.400 giorni, e la guerra in Bosnia Erzegovina, terminata solo nel novembre del 1995 con la firma degli Accordi di Dayton (ma in realtà l’assedio sarà tolto solo alla fine di febbraio del 1996).
Nello stesso giorno, il 6 aprile 1992, inizia un bombardamento di artiglieria pesante da parte della Ju­goslovenska narodna armija (Jna) su Višegrad, nella Bosnia orientale. Gli abitanti di Višegrad fuggono cercando rifugio presso amici e parenti. Un gruppo di cittadini musulmano-bosniaci reagisce all’aggressione della Jna prendendo in ostaggio alcuni serbo-bosniaci e occupando la centra­le idroelettrica e la diga. A capo del gruppo c’è Murat Šabanović, che minaccia di far saltare in aria la diga, con conseguenze inimmaginabili. Comincia una drammatica contrattazione in diretta televisiva, mentre sia Višegrad sia le cittadine e i villaggi nei dintorni si vanno svuotando ulteriormente. L’iniziativa di Šabanović ha l’effetto di fermare, temporaneamente, le cannonate della Jna. Il 12 aprile il bluff di Šabanović viene scoperto e il 13 aprile il Corpo militare di Ušice può procedere con l’occupazione della città, dove dal successivo mese di maggio si registrerà la prima approfondita pulizia etnica ai danni dei musulmani di Bosnia, che a Višegrad costituivano il 63 per cento della popolazione.
Circa tremila persone vengono uccise e fatte scomparire. Lo stupro etnico ai danni di donne, bambini e uomini diviene pratica comune. Il fiume Drina, mirabilmente cantato dal premio Nobel per la letteratura Ivo Andrić, diviene la più grande fossa comune di quella guerra.
Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio di Luca Leone è un reportage scritto sul campo che racconta le vicende, raccoglie le testimonianze di tutte le parti e fa il punto sull’episodio che ha rappresentato la prova generale di ciò che sarebbe accaduto tra il 1992 e il 1995 a Srebrenica, Prijedor, Foča e in altri luoghi passati alla storia per la crudeltà degli eventi verificatisi.
Luca Leone presenta il libro venerdì 7 aprile ad Ancona alle 18,30 presso Zazie, corso Mazzini 79. Modera Paolo Pignocchi, vicepresidente di Amnesty International; organizza il Gruppo Amnesty International di Ancona.


Con il patrocinio di Amnesty International sezione italiana, Cisl Emilia Romagna, Iscos Emilia Romagna, Mirni Most

martedì 4 aprile 2017

Višegrad, 12 aprile 2017: una croce da 400 chili per creare nuova divisione

Sarà alta 5,5 metri e peserà 400 chilogrammi la croce ortodossa che il prossimo 6 aprile sarà innalzata sulla collina che domina la città serbo-bosniaca di Višegrad. L'iniziativa, presa dall'amministrazione ultranazionalista locale in accordo con il governo dell'Entità della Repubblica serba di Bosnia, è stata annunciata da uno stringato articolo uscito sul quotidiano Novosti, secondo cui l'inaugurazione ufficiale del manufatto è prevista per il successivo 12 aprile. Non è dato al momento conoscere il costo dell'operazione.
Si tratta dell'ennesima provocazione contro la minoranza musulmano-bosniaca locale e di una nuova strumentalizzazione della religione con l'obiettivo – dietro la scusa formale di ricordare i volontari russi che si sono immolati per la difesa della città – di mettere un ulteriore tassello nel lavoro di pulizia etnica avviato con la strage di almeno tremila civili tra il maggio 1992 e l'ottobre 1994.
Esiste già, tra l'altro, nel locale cimitero ortodosso, una lapide commemorativa dei 37 paramilitari russi arrivati a Višegrad in quegli anni per saccheggiare e per ammazzare civili musulmano-bosniaci in nome della Grande Serbia e pare assurdo che l'amministrazione locale impegni risorse ingenti per realizzare un manufatto atto a dividere invece che investire quegli stessi soldi per creare lavoro – e quindi unire – in un territorio in cui il tasso di disoccupazione non solo è a due cifre, ma è piuttosto vicino al 50 per cento della popolazione attiva.
La speranza è che si tratti di un pesce d'aprile fuori tempo. Ma è più probabile che si tratti dell'ennesima provocazione in vista del venticinquesimo anniversario dello scoppio della guerra in Bosnia Erzegovina (5-6 aprile 1992). Varrà la pena ricordare che prima dell'aprile del 1992 a Višegrad vivevano circa 22.000 persone, il 68 per cento delle quali appartenenti al gruppo musulmano-bosniaco. Oggi vivono nella cittadina circa 11.000 persone, delle quali poche centinaia appartenenti al gruppo musulmano-bosniaco. La pulizia etnica, dunque, è perfettamente riuscita...

Quando la croce sarà stata eretta, Višegrad diventerà una nuova Mostar. Anche lì è stata eretta anni fa una croce abusiva, sull'alto di una delle montagne che dominano la città. In quel caso, però, il simbolo non è ortodosso ma cattolico. Il senso, tuttavia, è lo stesso...