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venerdì 7 aprile 2017

Pillole di storia: 7-9 aprile 1992

7 aprile 1992, siamo nei primi giorni dell’assedio che terrà prigioniera Sarajevo per circa 1.400 giorni. Ricordiamo quei giorni grazie al lavoro del nostro autore Bruno Maran in Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti che ripercorre gli ultimi decenni della storia jugoslava, anno per anno, giorno per giorno.
7 aprile – Un timido sole illumina Sarajevo colpita dal delirio di una logica razzista, avente l’obiettivo di distruggere la convivenza civile, il komšiluk. Scrive Kemal Kurspahić, nell’editoriale su Oslobodjenje: “Chi non sta dalla parte giusta in queste ore, non sarà mai più in grado di ritornare alla ragione. Chi si ritrova sulle posizioni da cui si spara ai bambini, condanna se stesso e non dovrà attendere il giudizio del tempo. Questo è il tempo in cui ognuno di noi ha un’opportunità di incontrare la propria coscienza e di fare una scelta, in questo momento sono il diritto alla vita e alla dignità che vanno difesi. Ecco perché le vittime innocenti vivranno molto più a lungo dei loro assassini. Dio benedica le loro anime”.
A Banja Luka, l’assemblea del popolo serbo proclama l’indipendenza della Repubblica serba di Bosnia, con l’intenzione di federarsi a Serbia e Monte­negro per creare una “nuova Jugoslavia”. Non è chiaro quali saranno i confini dell’auto-proclamata repubblica, sicuramente in sintonia con il Memorandum dell’Accademia delle Arti e delle Scienze di Belgrado, che teorizzò, sia pure tra le righe, la “pulizia etnica”. La bandiera è quella tradizionale della Serbia, con la croce e le “quattro C” cirilliche al centro: Samo Sloga Srbina Spasava (Solo l’unità salverà i serbi). I serbo-bosniaci cantano: Vendi la vacca e compra il fucile!.
Nel villaggio a etnia mista di Kuljenovci, nel nord della BiH, due soldati della Jna cadono in un’imboscata mentre sono di pattuglia. Carri armati croati pas­sano il ponte di Derventa. Al censimento del ‘91, la municipalità di Derventa era composta per il 40% da serbi, 38% da croati e il 12% da musulmani.
8 aprile – Izetbegović dichiara lo stato d’emergenza e costituisce la strut­tura della Difesa territoriale. Comandante il bosniaco musulmano Hasan Efendić, ex colonnello della Jna; vice-comandanti Jovan Divjak, serbo di Belgrado, da decenni residente a Sarajevo e il croato Stjepan Šiber; primo capo di Stato maggiore è Sefer Halilović. La Bosnia è priva di Difesa ter­ritoriale. Molto prima delle ostilità, nel maggio del 1980, ha consegnato 300.000 armi, tra cui fucili, mortai e artiglieria leggera, alla Jna. Se soltanto la metà delle armi consegnate fossero state trattenute dalle forze bosniache, la guerra in Bosnia avrebbe avuto un altro corso…
La Jna bombarda Zvornik, dove è ucciso il corrispondente di Oslobodjenje. I četnici serbo-bosniaci lo trovano alla macchina da scrivere, lo trascinano fuori, in un cimitero, dove è trucidato con altri undici civili. A Grude s’in­sedia il Consiglio di Difesa croato Hvo, quale “unica forma di difesa istitu­zionale” dei croati di Bosnia.
Durante il mese di aprile pesanti bombardamenti su Sarajevo da parte del­le forze serbo-bosniache che hanno occupato tutte le postazioni strategiche sopra la città e si sono impossessate degli armamenti dell’Armata federale, compresi quelli appartenuti alla Difesa territoriale. Il sibilo delle granate e il tiro dei cecchini sovrastano il vociare dei mercati della città. Gli obiettivi mili­tari sono trascurati, il bersaglio è l’intera città, per terrorizzarla, per affamarla: “Alle ore 00,00 un proiettile T.130 m/m. Alle ore 2,00 un proiettile T.130 m/m! Alle ore 4,00 un proiettile T.130 m/m. Alle ore 6,00 un proiettile T.130 m/m”.
L’utilizzo di cecchini diventa una pratica diffusa e ben remunerata. I cec­chini, spesso ex campioni di tiro a segno o tiratori scelti, sparano a colpo sicuro sulla popolazione, che rappresenta il vero ostaggio di questo assedio. Sono pagati molto bene per il loro sporco lavoro. C’è chi dice che incassino un premio per ogni colpo a segno può variare tra i 200 e i 500 marchi, tal­volta anche 1.000 per certi target difficili, come i bambini mentre giocano. Secondo altri il pagamento non è “a testa” ma a giornata o a settimana, ma sempre molto elevato. È circolata con insistenza la voce secondo cui posta­zioni di tiro siano state affittate a caro prezzo a cacciatori occidentali, anche italiani, in cerca di emozioni forti: sparare a prede umane.
9 aprile – Izetbegović ordina l’unificazione dei gruppi paramilitari musul­mani e croati di Bosnia, ma l’obiettivo è difficile da raggiungere per la rilut­tanza croata alla perdita di autonomia e per i sempre più frequenti contrasti all’interno del campo musulmano. Il Partito di azione democratica (Sda) di Izetbegović, nel tentativo di influire sulle strutture di comando, provoca un’emorragia tra i combattenti “non musulmani”.

L’Armata federale occupa più del 60% del territorio bosniaco in nome del progetto di costituzione della “Grande Serbia” e per il controllo delle aree stra­tegiche per la sopravvivenza dell’Armata stessa. A Banja Luka, Travnik, Vitez, Konjic, Goradže, Mostar hanno sede le maggiori industrie belliche “jugosla­ve”. Gli abitanti, che non sposano la causa serba sono trucidati o internati in campi di concentramento, come quello di Sanski Most. I più fortunati sono deportati “fuori dalla terra serba”, spesso con l’aiuto o la connivenza della Croce rossa. “Sciacalli e cani di guerra” fanno razzie d’ogni genere. Secondo una commissione del Senato degli Stati Uniti, in questa fase sono uccise circa 35.000 persone. Le stime dell’Unhcr affermano che almeno 420.000 sono costrette alla fuga e almeno 200 case sono incendiate ogni giorno. Ovunque la popolazione è terrorizzata e incredula. Chi può scappa, pensando che in breve tempo tutto si dissolverà come un brutto incubo. Sono migliaia le fa­miglie che fuggono con la speranza di poter ritornare dopo poche settimane. Da Sarajevo partono sugli ultimi aerei, le auto stracariche, i treni e le corriere. Almeno 10.000 studenti lasciano l’università. Il flusso continua per tutto il mese, alla fine saranno oltre 100.000 i cittadini che abbandonano la capi­tale, riversandosi su Zagabria, Tuzla, Belgrado, in Montenegro e all’estero, soprattutto in Germania. A detta di qualche analista l’assedio di Sarajevo riveste una funzione diversiva: concentrare le preoccupazioni della comunità internazionale sulle sorti della capitale e distogliere l’attenzione dalle feroci operazioni di “pulizia etnica” in atto sul resto del territorio bosniaco.