7 aprile 1992, siamo nei primi giorni dell’assedio
che terrà prigioniera Sarajevo per circa 1.400 giorni. Ricordiamo quei giorni
grazie al lavoro del nostro autore
Bruno Maran in Dalla
Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti che
ripercorre gli ultimi decenni della storia jugoslava, anno per anno,
giorno per giorno.
7 aprile – Un timido sole illumina Sarajevo colpita
dal delirio di una logica razzista, avente l’obiettivo di distruggere la
convivenza civile, il komšiluk. Scrive Kemal Kurspahić, nell’editoriale
su Oslobodjenje: “Chi non sta dalla parte giusta in queste ore, non
sarà mai più in grado di ritornare alla ragione. Chi si ritrova sulle posizioni
da cui si spara ai bambini, condanna se stesso e non dovrà attendere il
giudizio del tempo. Questo è il tempo in cui ognuno di noi ha un’opportunità di
incontrare la propria coscienza e di fare una scelta, in questo momento sono il
diritto alla vita e alla dignità che vanno difesi. Ecco perché le vittime
innocenti vivranno molto più a lungo dei loro assassini. Dio benedica le loro
anime”.
A Banja Luka, l’assemblea
del popolo serbo proclama l’indipendenza della Repubblica serba di Bosnia, con
l’intenzione di federarsi a Serbia e Montenegro per creare una “nuova
Jugoslavia”. Non è chiaro quali saranno i confini dell’auto-proclamata
repubblica, sicuramente in sintonia con il Memorandum dell’Accademia
delle Arti e delle Scienze di Belgrado, che teorizzò, sia pure tra le righe, la
“pulizia etnica”. La bandiera è quella tradizionale della Serbia, con la croce
e le “quattro C” cirilliche al centro: Samo Sloga Srbina Spasava (Solo
l’unità salverà i serbi). I serbo-bosniaci cantano: Vendi la vacca e
compra il fucile!.
Nel villaggio a etnia mista di Kuljenovci,
nel nord della BiH, due soldati della Jna cadono in un’imboscata mentre sono di
pattuglia. Carri armati croati passano il ponte di Derventa. Al censimento del
‘91, la municipalità di Derventa era composta per il 40% da serbi, 38% da
croati e il 12% da musulmani.
8 aprile – Izetbegović dichiara lo stato d’emergenza e
costituisce la struttura della Difesa territoriale. Comandante il bosniaco
musulmano Hasan Efendić, ex colonnello della Jna; vice-comandanti Jovan Divjak,
serbo di Belgrado, da decenni residente a Sarajevo e il croato Stjepan Šiber;
primo capo di Stato maggiore è Sefer Halilović. La Bosnia è priva di Difesa territoriale.
Molto prima delle ostilità, nel maggio del 1980, ha consegnato 300.000 armi,
tra cui fucili, mortai e artiglieria leggera, alla Jna. Se soltanto la metà
delle armi consegnate fossero state trattenute dalle forze bosniache, la guerra
in Bosnia avrebbe avuto un altro corso…
La Jna bombarda Zvornik,
dove è ucciso il corrispondente di Oslobodjenje. I četnici serbo-bosniaci
lo trovano alla macchina da scrivere, lo trascinano fuori, in un cimitero, dove
è trucidato con altri undici civili. A Grude s’insedia il Consiglio di Difesa
croato Hvo, quale “unica forma di difesa istituzionale” dei croati di
Bosnia.
Durante il mese di aprile pesanti
bombardamenti su Sarajevo da parte delle forze serbo-bosniache che hanno
occupato tutte le postazioni strategiche sopra la città e si sono impossessate
degli armamenti dell’Armata federale, compresi quelli appartenuti alla Difesa
territoriale. Il sibilo delle granate e il tiro dei cecchini sovrastano il
vociare dei mercati della città. Gli obiettivi militari sono trascurati, il
bersaglio è l’intera città, per terrorizzarla, per affamarla: “Alle ore
00,00 un proiettile T.130 m/m. Alle ore 2,00 un proiettile T.130 m/m!
Alle ore 4,00 un proiettile T.130 m/m. Alle ore 6,00 un proiettile T.130
m/m”.
L’utilizzo di cecchini diventa una pratica
diffusa e ben remunerata. I cecchini, spesso ex campioni di tiro a segno o
tiratori scelti, sparano a colpo sicuro sulla popolazione, che rappresenta il
vero ostaggio di questo assedio. Sono pagati molto bene per il loro sporco
lavoro. C’è chi dice che incassino un premio per ogni colpo a segno può variare
tra i 200 e i 500 marchi, talvolta anche 1.000 per certi target difficili,
come i bambini mentre giocano. Secondo altri il pagamento non è “a testa” ma a
giornata o a settimana, ma sempre molto elevato. È circolata con insistenza la
voce secondo cui postazioni di tiro siano state affittate a caro prezzo a
cacciatori occidentali, anche italiani, in cerca di emozioni forti: sparare a
prede umane.
9 aprile – Izetbegović ordina l’unificazione dei
gruppi paramilitari musulmani e croati di Bosnia, ma l’obiettivo è difficile
da raggiungere per la riluttanza croata alla perdita di autonomia e per i
sempre più frequenti contrasti all’interno del campo musulmano. Il Partito di
azione democratica (Sda) di Izetbegović, nel tentativo di influire sulle
strutture di comando, provoca un’emorragia tra i combattenti “non musulmani”.
L’Armata federale occupa più del 60% del
territorio bosniaco in nome del progetto di costituzione della “Grande Serbia”
e per il controllo delle aree strategiche per la sopravvivenza dell’Armata
stessa. A Banja Luka, Travnik, Vitez, Konjic, Goradže, Mostar hanno sede le
maggiori industrie belliche “jugoslave”. Gli abitanti, che non sposano la
causa serba sono trucidati o internati in campi di concentramento, come quello
di Sanski Most. I più fortunati sono deportati “fuori dalla terra serba”,
spesso con l’aiuto o la connivenza della Croce rossa. “Sciacalli e cani di
guerra” fanno razzie d’ogni genere. Secondo una commissione del Senato degli
Stati Uniti, in questa fase sono uccise circa 35.000 persone. Le stime
dell’Unhcr affermano che almeno 420.000 sono costrette alla fuga e almeno 200
case sono incendiate ogni giorno. Ovunque la popolazione è terrorizzata e incredula.
Chi può scappa, pensando che in breve tempo tutto si dissolverà come un brutto
incubo. Sono migliaia le famiglie che fuggono con la speranza di poter
ritornare dopo poche settimane. Da Sarajevo partono sugli ultimi aerei, le auto
stracariche, i treni e le corriere. Almeno 10.000 studenti lasciano
l’università. Il flusso continua per tutto il mese, alla fine saranno oltre
100.000 i cittadini che abbandonano la capitale, riversandosi su Zagabria,
Tuzla, Belgrado, in Montenegro e all’estero, soprattutto in Germania. A detta
di qualche analista l’assedio di Sarajevo riveste una funzione diversiva:
concentrare le preoccupazioni della comunità internazionale sulle sorti della
capitale e distogliere l’attenzione dalle feroci operazioni di “pulizia etnica”
in atto sul resto del territorio bosniaco.