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venerdì 29 settembre 2017

Siria, due incontri oggi e domani con Laura Tangherlini

“Sono venuta con la famiglia, ma mia sorella ci ha raggiunti in un secondo momento. La prima volta sono venuta qui con tutta la mia famiglia, anche con mio padre. Dopo poco tempo mio padre, mio fratello e i miei zii sono tornati in Siria, per com­battere con i ribelli. Successivamente mio padre ci ha chiesto di raggiun­gerlo di nuovo ad Aleppo, ma alla fine siamo di nuovo venuti tutti qui. Ora papà ha smesso di combattere, non ha un lavoro ma ha dei soldi da parte. Anche mia madre sta a casa, mentre gli zii hanno un’occupazione”, racconta Judiye, aleppina di 11 anni alla giornalista Laura Tangherlini in Matrimonio siriano, libro più documentario in Dvd. L’autrice trasforma il diario di viaggio del proprio matrimonio in una raccolta di voci e testimonianze dei tanti profughi – in maggioranza bambini e donne – incontrati nei campi in Turchia e in Libano dai due neosposi.

Matrimonio siriano è una nuova finestra di verità aperta su un mondo, quello della guerra in Siria e delle milioni di persone che ne pagano le conseguenze sulla loro pelle, che i nostri media ci fanno ignorare e vuole, con la donazione dei diritti d’autore derivanti dalle vendite del libro, aiutare attraverso i progetti di Terre des Hommes i bambini siriani che hanno bisogno di sostegno. Laura Tangherlini presenta il lavoro oggi a FERRARA, nell'ambito del Festival di Internazionale, presso il Chiostro piccolo di San Paolo, ore 17,30 e domani a ROMA, presso la libreria Feltrinelli, Galleria Alberto Sordi, ore 18,00. Dialogano con l'autrice Luce Tommasi, Matteo Bressan (NATO Defense College Foundation) e il gen. Vincenzo Camporini.

mercoledì 27 settembre 2017

Christiana Ruggeri parla di Venezuela e diritti negati il 30/9 ospite del Festival dell’Erranza

Il Venezuela, dove la percentuale di bambini malnutriti è aumentata in maniera esponenziale in pochi mesi, è al centro di una crisi economica, sociale e politica pesantissima.
Un altro aspetto critico del Paese sudamericano è la situazione carceraria, che vede gli ultimi diventare invisibili. In questo quadro a tinte fosche si inserisce la figura di Rico, uno dei tanti piccoli spacciatori dimenticati dentro al PGV (Penitenciaría General de Venezuela), il carcere di San Juan de Los Morros gestito dai narcotrafficanti. Oltre le sbarre, le guardie bolivariane non entrano. E accade di tutto. Poveri diavoli e assassini sanguinari convivono: i primi subiscono e scompaiono, i secondi spadroneggiano. Rico raccoglie di nascosto le loro storie, per dare un senso ai suoi giorni. Malato e stanco, prima di morire affida il suo reportage dalla fine del mondo, alla goccia bianca, la suora-maestra del PGV. La giornalista Christiana Ruggeri nel romanzo-denuncia I dannati. Reportage dal carcere venezuelano più pericoloso del mondo lancia, attraverso il protagonista un grido d’aiuto per i suoi compagni di prigionia ma anche una ricerca disperata di assoluzione e di giustizia.
“La situazione all’interno degli istituti di pena (e anche nei centri di detenzione pre-processuale) in Venezuela è tragica. Il racconto di Riccardo, riportato in questo libro, lascia senza fiato. E Christiana Ruggeri è straordinariamente brava nel renderlo testimonianza drammatica, incalzante, nello scriverne come se avesse visto coi suoi occhi”. (Riccardo Noury)
“La Penitenciaría non è uno strumento di contrasto alla criminalità, ne è semmai la roccaforte. L’inferno di violenza e di ferocia che il libro descrive non è costruito per ridurre il crimine o i reati, ma per comprimerli in uno spazio circoscritto in cui gestirli, monitorarli e, quando è possibile, valorizzarli, ovvero estrarne valore economico attraverso una gestione corrotta del carcere. In questo modo non si contrasta né si riduce la criminalità, ma si prova a relegarla in uno spazio, materiale e simbolico, diverso dal nostro. E questo, che piaccia o meno, accade in ogni Paese al mondo”. (Alessio Scandurra)
L’autrice parteciperà alla V edizione del Festival dell’Erranza presentando il libro sabato 30 settembre a PIEDIMONTE MATESE (CE), alle 18,15.

Con il patrocinio di Antigone Onlus

martedì 26 settembre 2017

27-30 settembre, le Quattro giornate di Napoli

Le Quattro giornate di Napoli (27-30 settembre 1943) furono un episodio storico di insurrezione popolare avvenuto nel corso della seconda guerra mondiale tramite il quale, i civili, con l'apporto di militari fedeli al cosiddetto Regno del Sud, riuscirono a liberare la città partenopea dall'occupazione delle forze armate tedesche.
L'avvenimento, che valse alla città di Napoli il conferimento della medaglia d'oro al valor militare, consentì alle forze Alleate di trovare al loro arrivo, il 1º ottobre 1943, una città già libera dall'occupazione nazista, grazie al coraggio e all'eroismo dei suoi abitanti ormai esasperati ed allo stremo per i lunghi anni di guerra. Napoli fu la prima, tra le grandi città europee, ad insorgere con successo contro l'occupazione nazista.

Ripercorriamo insieme a Camillo Albanese, autore del libro dal titolo “Napoli e la seconda guerra mondiale” quei giorni tanto drammatici ed eroici.
«In quei giorni si videro scene drammatiche, interi caseggiati circondati, uomini strappati dalle loro case, ammassati per strada sotto la minaccia dei mitra che ogni tanto facevano sentire la loro sinistra voce per aumentare il terrore e dissuadere i parenti ad avvicinarsi. L’intensificarsi dei rastrellamenti portò in quei giorni a razziare circa ottomila persone, buona parte delle quali furono mandate nel campo di concentramento di Capodimonte, altre consegnate agli uffici di polizia italiani perché venissero accompagnati ai centri di raccolta. Molti commissariati, invece di eseguire l’ordine, lasciarono liberi i malcapitati fornendo loro anche armi. (…)
All’alba del 28 la rivolta scoppiò quasi contemporaneamente in vari punti della città; la cosa sorprendente fu che non era stata organizzata, non c’era un piano strategico generale, una mente coordinatrice. Ciascun gruppo agiva all’interno del proprio quartiere e non era in contatto con altre formazioni. Ciò se da un lato poteva rappresentare un limite, dall’altro permetteva ai partigiani di muoversi con sicurezza tra le strade e le stradine della loro zona, di cui conoscevano i rifugi, i vicoli senza sbocco, i fondachi, i portichetti, quindi erano avvantaggiati rispetto al nemico.
Data questa situazione, si procedeva a compartimenti stagni ma non furono rari i casi in cui ci furono sconfinamenti nelle aree limitrofe quando ci si accorgeva che occorreva rinforzare le postazioni.
Da quanto è dato sapere, la scintilla scoppiò in un vicolo del quartiere Avvocata. Qui una pattuglia tedesca sfondò il portone di un calzaturificio per forniture militari e si dette a saccheggiarlo. Gli abitanti della zona, inferociti, cominciarono a sparare sui militari, che risposero al fuoco. A quel punto non si capì più nulla: si sparava da tutte le parti, dai portoni, dalle finestre, dai balconi, dagli angoli delle strade. Una giovane donna, Maddalena Cerasuolo, detta Lenuccia, fu l’eroina di quello scontro (fu poi insignita della medaglia di bronzo). La ragazza, senza preoccuparsi dei proiettili che le sibilavano intorno, correva avanti e indietro per rifornire di bombe a mano i combattenti.
Nella stessa ora l’insurrezione scoppiò nei quartieri più popolari di Napoli: il Vasto, la Sanità, la zona della Stazione e di seguito, a poca distanza di tempo, in piazza Cavour, via Duomo, corso Umberto, piazza Plebiscito, all’incrocio del Museo, là dove convergono quattro strade: via Salvator Rosa, vie Enrico Pessina, via Museo, via Santa Teresa. (…)
“Fu – secondo la testimonianza di Antonino Tarsia in Curia – una guerriglia accanita e spietata condotta con estrema violenza nella quale gruppi, gruppetti e persino individui isolati sostennero azioni cruente – determinate da contingenze di luogo e di tempo – le quali ebbero una continuità nel loro svolgimento dovuta, più di ogni altro, al frazionamento delle forze tedesche su tutto il territorio della città di Napoli”.
La sera del 28, Napoli si presentava come un campo battaglia. Il popolo, guidato soprattutto dall’odio verso i nazisti prodotto dalla sofferenza per le iniquità subite, ora li costringeva a ritirarsi. I successi degli scontri, nonostante i tanti morti e feriti, esaltarono ancor più gli animi, caricando di maggior foga le azioni guerresche. Si continuava a combattere in via Santa Teresa, dove all’altezza di Materdei furono erette barricate sia disselciando la strada sia rovesciando una vettura tranviaria; qui gli scontri durarono tutta la notte tra il 28 e il 29. Anche via Salvator Rosa fu sbarrata da imponenti barricate, che impedirono il transito ai carri armati nemici.
La mattina del 29 settembre la rivolta armata scoppiò in tutto il Vomero e nelle zone adiacenti e fu condotta con coraggio e determinazione. C’erano tedeschi asserragliati negli edifici di via Kerbaker, via Solimena, via Cimarosa, piazza Medaglie d’oro e nella palazzina del campo sportivo e si difendevano come potevano dagli assalti dei partigiani, mentre in piazza Vanvitelli, via Alvino, la Pigna, piazza Leonardo, Cappella dei Cangiani gli scontri avvennero in campo aperto.
Era l’alba e in via Kerbaker c’era un gruppo di nazifascisti che sparava da una finestra del quarto piano. I partigiani risposero al fuoco, erano allo scoperto, due furono gravemente feriti, se ne salvò solo uno. Quando fecero irruzione nell’appartamento, i nemici erano fuggiti per i tetti, lasciandosi dietro macchie di sangue e una vecchia in preda al terrore.
In via Solimena furono messi in fuga alcuni tedeschi che, con una mitragliatrice messa su un davanzale di un abbaino, sparavano all’impazzata. L’operazione costò la vita a un partigiano.
Due giovani militi fascisti che montavano la guardia alla sede del fascio, in via Cimarosa, furono disarmati e massacrati di botte.
Una postazione, annidata nel palazzo detto il Transatlantico, in piazza Medaglie d’oro, fu messa a tacere con un’abile azione.
Un intenso combattimento si svolse intorno al campo sportivo durante tutto il 29. Circa sessanta tedeschi, comandati dal maggiore Sakau, erano rinchiusi nelle due palazzine all’ingresso del campo; avevano 47 ostaggi e sparavano senza sosta contro i partigiani, che avevano preso posizione nei fabbricati di fronte. In rinforzo ai partigiani arrivò una camionetta guidata dal vigile del fuoco Mario Canessa, con a bordo una mitragliatrice. Il vicebrigadiere dei carabinieri Vincenzo Pace saltò sulla camionetta, mise in posizione l’arma e concentrò il fuoco verso il nemico. Pace, dopo poco, venne ferito e il suo posto fu subito preso da un altro. I combattimenti continuavano. Erano le 18,00 quando dall’ingresso del campo apparve il maggiore Sakau preceduto da una bandiera bianca e circondato da altri militari. I partigiani s’avvicinarono, uno di loro conosceva il tedesco. Il maggiore chiese di cessare il fuoco e di lasciar passare i suoi uomini, minacciando l’uccisione degli ostaggi. La controproposta dei partigiani fu: “O la resa o continuare a combattere”. Sakau scelse la seconda soluzione. La sparatoria continuò ancora per un’ora ma poi riapparve dal cancello del campo a bordo di una camionetta con bandiera bianca portata da un suo subalterno. Si riaprirono le trattative; il maggiore disse che per arrendersi occorreva l’ordine del comandante Scholl che risiedeva all’albergo Parco in corso Vittorio Emanuele, eletto a quartiere generale. Mentre si stava decidendo il da farsi, l’autista, pare preso dal panico alla vista di alcuni uomini armati fece esplodere una bomba a mano che mise fuori uso l’automezzo. Con un’altra macchina la delegazione tedesca, disarmata, venne portata in corso Vittorio. All’albergo Parco regnava il caos più totale, fervevano i preparativi per la fuga. In breve fu raggiunto l’accordo: i 47 ostaggi sarebbero stati liberati e i tedeschi sarebbero stati lasciati liberi di partire. Intorno alla mezzanotte rientrò al campo sportivo la delegazione, l’accordo fu mantenuto da tutte e due le parti e i tedeschi partirono su tre autocarri. Nella battaglia del campo sportivo persero la vita sette civili.
Piazza Vanvitelli divenne l’epicentro dei combattimenti. Quadrivio strategico per i belligeranti, lì si concentrarono i partigiani provenienti dalle strade circostanti. All’angolo di via Luca Giordano una mitragliatrice tedesca sputava fuoco a ripetizione, fermando l’assalto dei partigiani; uno di essi, uscito allo scoperto, si lanciò contro ma una raffica lo ferì mortalmente. Gli scontri continuavano. Dopo circa due ore di combattimenti, verso le 17,30 un fortissimo temporale sembrò placare gli animi: cessarono gli spari ma, finito il temporale, i tedeschi ripresero a scorrazzare nella zona e due autoblindo sparavano su ogni cosa si muovesse. I due mezzi furono fermati da bombe a mano lanciate dalle finestre.
Durante la notte i tedeschi a piedi o motorizzati gridavano: “Italiani non sparate”. Un grido esplicativo del loro stato d’animo.
Sempre il 29, intorno alle nove del mattino, i partigiani intercettarono una camionetta tedesca che rimorchiava un’automobile. Ordinarono l’alt ma la camionetta proseguì accelerando. Fu inseguita con un’altra vettura e, raggiunta, cominciò la sparatoria; i tedeschi rimasero feriti e furono fatti prigionieri.
In via delle Pigne i partigiani furono alle prese con delle mine, che se scoppiate avrebbero gravemente danneggiato i palazzi del circondario. Riuscirono a toglierle sotto il fuoco nemico e a buttarle in un pozzo adiacente. La sera, poi, vedendo passare un’autocolonna nemica, si predisposero per impedirne il transito. Forti di una mitragliatrice e con l’appoggio di altri gruppi di partigiani armati di mitra e bombe a mano, la partita si chiuse a vantaggio dei napoletani.
Il 29, a mattina inoltrata, gli scontri si fecero aspri in piazza Leonardo. I partigiani per impedire ai tedeschi, provenienti da piazza Medaglie d’oro, di raggiungere via Salvator Rosa, fortificarono la zona e appena videro passare il primo autocarro, armato di mitragliatrice, aprirono il fuoco costringendo gli occupanti a darsi alla fuga. Stessa sorte toccò a un altro automezzo che fu abbandonato, come il primo, nelle mani dei partigiani.
A Cappela dei Cangiani i tedeschi, per garantirsi il transito senza pericolo, dettero luogo a una perquisizione dei fabbricati e presero dodici ostaggi. Li trascinarono per strada e stavano per fucilarli quando un commando di partigiani intervenne a liberarli.
La sera del 29 settembre, mentre i partigiani del Vomero attendevano la delegazione tedesca con l’autorizzazione del colonnello Scholl a trattare la resa, si riunirono nei locali del liceo Sannazzaro per la formale costituzione di un comando dei partigiani. Per acclamazione fu nominato capo del comando Antonino Tarsia in Curia e alla formazione, priva di colore politico e avente solo scopo patriottico, fu dato il nome di Fronte unico rivoluzionario, con sede nel liceo. Si procedette a dare un minimo di organizzazione alla neonata compagine e a risolvere i problemi più urgenti. Tra questi, quello di fornire viveri ai partigiani, digiuni dal mattino. Fu composta una squadra per il reperimento di qualunque cosa fosse commestibile. Con le buone e con la forza si riuscì a racimolare razioni sufficienti per sfamare circa duecento persone.
Un altro reparto di partigiani fu incaricato di dare la caccia alle spie e ai gerarchi fascisti annidati nei vari appartamenti. Compito che fu assolto secondo le precise direttive di Tarsia.
Spuntava l’alba del 30 settembre, l’epopea delle Quattro Giornate stava per concludersi. Nel liceo Sannazzaro si decise di emanare un’ordinanza per dissuadere i male intenzionati ad azioni non in linea con i programmi del Fronte. Il proclama, a firma Tarsia, così recitava:

“Assumo temporaneamente i poteri civili e militari.
Ciascuno faccia scrupolosamente il suo dovere, la disciplina deve essere assoluta. Sono vietate tutte le manifestazioni che turbano l’ordine pubblico. I negozi debbono rimanere aperti: squadre d’azione rivoluzionaria sorveglieranno la disciplina e la vendita nei pubblici esercizi.
Napoli, 30 settembre 1943”.

Lo stesso giorno il tenente colonnello Felicetti si recò al comando del Fronte prospettando lo stato d’inedia della popolazione e la possibilità di rimediare con un carico di circa cento quintali di farina; per trasportarli, però, chiedeva due automezzi. L’ufficiale era conosciuto per la sua serietà ma, date le circostanze, la diffidenza non era troppa. Ebbe i suoi camion con la raccomandazione di portare a termine la missione, pena una severa punizione.
Cominciò il lungo viaggio dei due camion, che si manifestò pieno d’insidie e di pericoli. Giunti a un mulino che sorgeva ai margini del campo d’aviazione di Capodichino, entrarono da un portone laterale in maniera che i tedeschi, ancora sulle piste e negli hangar, non riuscissero a vederli. Mentre stavano ultimando il carico, tuttavia, s’accorsero che i militari stavano per intervenire. Solo la prontezza di spirito di Felicetti salvò il salvabile: lasciò il camion ancora non completo e partì con quello pieno attraverso strade impervie che solo lui conosceva. Fu un viaggio pericoloso perché dovette evitare tutte le zone dov’era prevedibile fare brutti incontri. Il viaggio durò dieci ore ma l’ufficiale italiano riuscì a portare a destinazione un camion di farina, che fu provvidenziale. I panettieri furono mobilitati e riuscirono a produrre pane per gli abitanti del Vomero in ragione di cento grammi a testa.
Nel pomeriggio del 30 settembre ci fu un tentativo da parte di un console fascista e dei suoi uomini di assaltare la sede del Fronte unico rivoluzionario. I partigiani, preventivamente avvisati del blitz, predisposero le forze in modo tale che quando arrivarono i fascisti ebbero un’accoglienza talmente rumorosa che se la dettero a gambe disperdendosi senza lasciare traccia.
Il tramonto aveva concluso il suo breve ciclo e la sera declinava verso il desiderio della notte. La città, stanca, sembrava sonnolenta. I partigiani avevano disposto le ronde in luoghi strategici. Le sparatorie dei giorni e delle ore precedenti erano cessate; solo qua e là qualche colpo isolato, ultimo rantolo d’una battaglia morente.
In lontananza si sentiva il tuono dei cannoni. Lo scontro era adesso tra l’armata tedesca in ritirata e quella anglo-americana che avanzava. Anche le navi da guerra americane e inglesi contribuivano a quel fragore rassicurante. In cielo i proiettili traccianti, i razzi illuminanti, lo scoppio di granate offrivano uno spettacolo che si sarebbe potuto definire piacevole se non avesse nascosto distruzione e morte. Con questa scena calava il sipario sulle Quattro Giornate di Napoli, 76 ore di combattimenti, dal mattino del 28 settembre all’alba del primo ottobre, che costarono la vita a 178 partigiani e il ferimento di 162».


lunedì 18 settembre 2017

Carzano 100 anni dopo

Carzano, piccolo comune della provincia di Trento, fu teatro 100 anni fa di un episodio della Grande Guerra sconosciuto ai più. Nella notte del 17 settembre 1917 persero la vita 910 soldati italiani e 316 militari austriaci. La mattina dopo l’esercito austriaco riconquistò il paese. Questo è stato il bilancio del tentativo di diserzione del Battaglione Bosniaco che combatteva per Vienna che, in accordo con lo Stato Maggiore italiano, avrebbe dovuto rompere le difese austriache, conquistare tutta la Val Brenta e straripare fino a Trento.
L’azione, nonostante l’eroismo dei congiurati e di alcuni ufficiali italiani, si tramuta in una rotta del nostro esercito, in un massacro inutile e nella cattura di molti disertori del Battaglione Bosniaco. Un mese dopo, il 24 ottobre, ci sarebbe stata la disfatta di Caporetto. Una pagina vergognosa di storia italiana ignota ai più, raccontata in una ricostruzione storica straordinaria.

Daniele Zanon e Valerio Curcio nel romanzo storico Il Battaglione Bosniaco, ripercorrono quei giorni concitati e per lungo tempo dimenticati.


venerdì 15 settembre 2017

Corea del Nord, lanciato un nuovo missile sopra il Giappone

Nuova provocazione alla comunità internazionale da parte di Kim Jong-un con il lancio di un missile che ha sorvolato il Giappone superando l’isola di Hokkaido e andando a cadere nel Pacifico a 3.700 km di distanza da Pyongyang.
“Non tollereremo più”, è stata la reazione del premier giapponese Shinzo Abe e per oggi è convocata una riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Quali sono le condizioni di vita della popolazione nordcoreana, sottoposta alla pressione della dittatura della famiglia dei Kim? Tremende e durissime, come ci racconta Daniele Zanon in “Mass Games. Fuga dalla Corea del Nord”, avventuroso e avvincente romanzo che vede protagonisti dei ragazzi ospiti di una comune di rieducazione e la loro fuga verso la libertà.


lunedì 4 settembre 2017

Corea del Nord, il Day After

Sono passate poche ore dal lancio della prima bomba a idrogeno da parte della Corea del Nord. Un ordigno dalla forza e dagli effetti spaventosi, circa cinque volte più potente della bomba sganciata dagli Stati Uniti su Nagasaki il 6 agosto del 1945. Il test di ieri ha provocato due scosse di terremoto; la prima, di magnitudo 6,3, e l’altra pari a una magnitudo 4,6, sono state rilevate dal China Earthquake Network Center secondo cui l'ipocentro è stato misurato a «zero chilometri», a conferma della natura artificiale dell'onda sismica.
Si teme l’avvio di un’escalation, con prove di forza da parte del regime nordcoreano e conseguenti reazioni da parte dei confinanti sudcoreani nonché del Giappone e degli Stati Uniti.
In questo clima di trepidante attesa un pensiero non egoista va alla popolazione nordcoreana, imprigionata in una dittatura senza scampo: per questo riportiamo le parole di Alex Zanardi che ha curato la prefazione di “Mass Games. Fuga dalla Corea del Nord” di Daniele Zanon.
Mass Games è un libro bello e coinvolgente. Una storia d’avventura che affronta temi classistici come la sete di libertà, l’amicizia e il coraggio. Può sembrare un racconto da accostare ad altre storie che parlano di regimi inventati e che si snodano attorno a scenari fantasiosi. Se non fosse che Mass Games parla di un Paese che è vero. Se non fosse che la fonte che ha ispirato questo racconto, ha vissuto per anni dentro al regime di Pyongyang. Prima di leggere questa storia, nella mia mente, la Corea del Nord era un luogo estraneo. Mass Games mi ha preso e mi ha portato lì, nella vita dura di una casa di correzione immersa nel nulla, nella bellezza finta di Pyongyang, nelle campagne affamate da una carestia che dura da decenni. Per questioni di sicurezza, l’autore non ha potuto rivelare il nome della sua fonte, né ha potuto scrivere una storia vera. Ma, anche se i personaggi sono di finzione, tutte le descrizioni che vengono fatte della Corea del Nord (la vita del popolo, la miseria, le violazioni dei diritti negli orfanotrofi) sono verità di prima mano raccolte sul campo. Nella storia di fuga intrapresa dai protagonisti, poesia e crudeltà si mescolano. Il racconto si muove velocissimo, è quello che si dice “un romanzo che prende”, e la cosa più apprezzabile è che, pur denunciando le condizioni di vita di un popolo, non imbocca mai le facili scorciatoie del sentimentalismo. Rinunciando a uno sguardo che indugia sul dramma fine a se stesso, Mass Games mantiene una freschezza e una leggerezza narrativa che lo rendono assolutamente godibile. Una di quelle storie che si leggono come bere un bicchier d’acqua.

Credo che certi libri abbiano il potere di far entrare nella coscienza collettiva la consapevolezza di un luogo o di una problematica. Mi auguro che questo, non a caso patrocinato da Amnesty International, faccia prendere coscienza delle condizioni di vita del popolo nordcoreano, considerate dalle Nazioni Unite fra le peggiori al mondo.”


venerdì 1 settembre 2017

Iran al pistacchio e la sfida alla California

Bronte a parte, in Italia non abbiamo forse un’idea precisa del mondo incredibile – e del mercato immenso – che gira intorno al pistacchio, questo meraviglioso seme per il palato raccolto dall’albero delle anacardiacee.
Da qualche giorno in Iran è cominciata la raccolta del pistacchio, settore che ormai ha da tempo abbandonato la tradizione famigliare per diventare un immenso business. L’Iran è infatti, a oggi, il principale sfidante della California nella produzione mondiale di pistacchio e, in questa competizione, è abbondantemente in testa, con oltre il 50 per cento della produzione planetaria.
I numeri, come sottolinea l’agenzia di stampa pubblica iraniana Irna (che va ovviamente presa con le dovute cautele), sono impressionanti. Nel 2016 gli alberi iraniani hanno prodotto circa 170.000 tonnellate di pistacchi. La raccolta del 2017, che si protrarrà per quasi tutto settembre, dovrebbe fruttare 235.000 tonnellate. Se lo scorso anno l’export iraniano in materia ha superato le 130.000 tonnellate, per introiti pari a 1,2 miliardi di dollari, nel 2017 è atteso un incremento rispettivamente a 150.000 tonnellate e a 1,5 miliardi di dollari. Tra i principali importatori, tra l’altro, oltre all’Italia ci sono proprio gli Stati Uniti, nonostante la produzione californiana.

E se prima o poi scoppiasse una pace verde al gusto di pistacchio?